Kim Ji-Young, nata nel 1982
- Autore: Cho Nam-Joo
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2021
Copertina gialla. Viso senza espressione.
Questo è Kim Ji-Young, nata nel 1982 della scrittrice coreana Cho Nam-Joo edito La Tartaruga nel 2021 con la traduzione di Filippo Bernardini.
Titolo anonimo. Lascia poco spazio all’immaginazione.
Muto. Senza alcun spessore. Quasi un codice fiscale. Non identifica nulla. Si va a deduzione che tra quelle sillabe ci sia nascosto un nome. Una persona. Una storia.
Quella di Kim Ji-Young. La protagonista di questo romanzo che è storia veritiera e vera di una donna. Cho Nam-Joo, sociologa sceneggiatrice e scrittrice coreana, classe 1978, l’ha scelto volutamente.
Il nome è tra i più comuni in Corea (un po’ come “Maria Rossi” in Italia). Scelto per non distrarre dalla storia e dalle sfumature che contiene. Un nome semplice e complesso. Normale per una donna coreana che vuole dare la massima trasversalità al narrato.
Mettendo in primo focus su stereotipi di una cultura millenaria e moderna (allo stesso tempo) duri a morire.
Dove il must “per nascita” è quello di essere moglie l’essere madre. Fino ad annullare totalmente se stessa. Fino a dubitare di essere persona e non parassita. Fino a cercare nove identità identificandosi.
Ed è questo che fa Kim Ji-Young, mezzana di tre fratelli. Tra una sorella, maggiore, e un fratello, minore. Figlia che in qualche modo è un in più tra una femmina (che può essere ammessa) e un maschio (necessario erede di sostentamento per la vecchiaia e il sostentamento della famiglia)
La nonna poco la considera, quasi a dimenticarla. Il padre la ama, ma poco sa delle sue passioni e dei suoi successi a scuola. La madre la sostiene (come d’altro canto fa con la sorella). Quasi a vedere in lei una sorta di rivalsa. Di possibilità da lei non avuta (o rinunciata) per poter eccellere fino forse a essere prima di tutto solo donna e persona con pensieri parole errori ed identità.
Un’identità che il marito di Kim sembra accettare capire condividere, in punta di piedi. Esempio di un nuovo uomo che accetta quasi meccanicamente desideri proposte di colei che ama, ma più per amore poiché ancora non totalmente matura la convinzione, imprigionata ancora in meta- testi rigidi e forse indistruttibili.
Punto di partenza, certo. Che in qualche modo incoraggia Kim, ma la porta, anche, davanti limitazioni a riprendere un ruolo suo di diritto di studio e capacità ma che fatica ad essere confermata proprio perché ora “è madre” . Quasi a dire “donna di serie B”. Entità surrogata a “carico del marito”.
Il lieto fine o una fine qui non c’è. Non possiamo nemmeno dire che sia un finale aperto. Si potrebbe parlare di finale sospeso, la definizione pare più idonea. Una storia che fa suo un “gender gap” certo coreano, ma che non si distanzia di molto da quello di altre parti del mondo. Dove spesso la donna viene messa su una bilancia. Le viene posto di scegliere. Essere madre o donna in carriera (come si usava dire negli anni 80). Dove una colpa di insolvenza del suo ruolo o della sua identità può comunque identificare un’incompletezza. Un compito non assolto. Dove essere donna (in un modo o nell’altro) è sempre e comunque sbagliato. Fino a sfociare (alle volte) in un “giustificato motivo di percosse (fisiche o verbali)”.
La storia di Kim è la storia di molte donne che (con o senza diritti) che vogliono (o vorrebbero) essere solo voci alla pari in un dialogo. Impersonando semplicemente loro stesse. Senza dover essere altro da se (come fa Kim, quasi a definire una malattia che forse non c’è effettivamente) per essere ascoltate
Kim Ji-Young, nata nel 1982, cerca di mettere rimettere, riscoprire e rifondare le sue basi per un ritrovare un suo perimetro. Cercando forse di “rifondare” sé stessa partendo da un bipolarismo salvifico che è rifiuto d un ruolo. Iniziando a ritrovandosi come donna, moglie, madre lavoratrice/professionista.
Il testo, tradotto e portato in Italia da La Tartaruga edizioni nel 2021, in patria è uscito nel 2016 diventando “caso editoriale” - più di un milione di copie vendute - tale da essere trasposto sullo schermo nel 2019 con Jung Yu-mi e Gong Yoo (nomi tra i più noti e in voga in Corea proprio per dare impulso ulteriore al messaggio) è vero ed ineccepibile manifesto aperto a una riflessione sensibile e condivisa nata da una necessità di svecchiare costumi sociali e culturale coreani, ma non solo.
Un ritratto di donna decisamente “molto coreano”, ma al contempo aperto a trasposizioni di un quotidiano collocato in ogni declinazione culturale, occidentale e non solo.
In una trasversalità di genere che impone di rallentare. Di fermarsi. Di riflettere.
Kim Ji-Young è un volto muto con mille facce. Mille personalità. Mille declinazioni. Sospesa in una mancanza di risposte definitiva, che a tutt’oggi sembra di là da venire.
In una narrazione cruda, a tratti ambiziosa, non vuole elargire giudizi e riflessioni universali, impone delicatamente un passo indietro dello sguardo.
Per una prospettiva critica ed oggettiva. Con punti di osservazioni inaspettati ovvi, alle volte invisibili.
Ad aiutare tutto, una suddivisione temporale della narratio in flashback imbriglia in un binomio lettore e vita della protagonista. Le caselle temporali che si formano diventano così vive e vitali.
Mai assopite. Alle volte intimidite che trovano nello stile a diario, con dialogo diretto e frasi semplici momenti di vera e propria analisi. Mai ridimensionata ma sempre aperta, oggettiva, leale. Per una crescita circolare sociale ed emotiva condivisa e continua.
Poiché:
Essere Donna è così affascinante, è un’avventura che richiede un tale coraggio una sfida che non finisce mai.
Come scriveva una nostra grande scrittrice, Oriana Fallaci, in Lettera a un bambino mai nato:
Essere mamma, che non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere.
È solo un diritto fra tanti diritti.
Kim-Ji Young, nata nel 1982
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