Una poesia che ci rivela un lato inedito del poeta vate. D’Annunzio era un musicofilo. Come sappiamo, fu un grande ammiratore di Wagner di cui tentò di imitare le modalità compositive nelle proprie opere. Lo stile dannunziano si contraddistingue per una peculiare musicalità, come si evince dal suo capolavoro, La pioggia nel pineto, in cui predominano, tra le figure retoriche, le onomatopee, ovvero la fonetica imitativa, il suono delle parole cerca di riprodurre lo scroscio della pioggia creando, di fatto, una vera e propria sinfonia. L’intera lirica si basa sulla percezione sonora dei suoni, sin dalla sua architettura sintattica basata sugli imperativi: “Taci”, seguito poi da “Ascolta” e dall’interrogativo “Odi?”.
Gabriele D’Annunzio amava la musica e il sodalizio con il compositore Francesco Paolo Tosti diede vita a delle romanze divenute pagine importanti della storia musicale otto-novecentesca. Una di queste è L’alba separa dalla luce l’ombra , tratta da Quattro canzoni d’ Amaranta (1907) composte per mezzosoprano e pianoforte.
D’Annunzio avrebbe collaborato anche con altri importanti compositori italiani, tra cui Giacomo Puccini, con il quale si proponeva di dare vita al dramma moderno, e Arturo Toscanini con il quale realizzò un concerto sinfonico a scopo benefico. La poesia di D’Annunzio ispirò anche il grande Claude Debussy, che si basò sui versi de Il martirio di San Sebastiano (1911) per la realizzazione di alcune sue opere.
Più proficua fu invece la collaborazione con Tosti, considerato l’inventore della canzone moderna, derivata dai lieder tedeschi. Distaccandosi da Schubert e Bramhs, Francesco Paolo Tosti riuscì a creare una musica nuova, un genere musicale salottiero molto amato dai giovani della buona società.
L’alba separa dalla luce l’ombra è forse il frutto più maturo di questo sodalizio poetico-musicale.
Vediamone testo e analisi.
“L’alba separa dalla luce l’ombra” di Gabriele D’Annunzio: testo
L’alba separa dalla luce l’ombra,
E la mia voluttà dal mio desire.
O dolce stelle, è l’ora di morire.
Un più divino amor dal ciel vi sgombra.
Pupille ardenti, O voi senza ritorno
Stelle tristi, spegnetevi incorrotte!
Morir debbo. Veder non voglio il giorno,
Per amor del mio sogno e della notte.
Chiudimi, O Notte, nel tuo sen materno,
Mentre la terra pallida s’irrora.
Ma che dal sangue mio nasca l’aurora
E dal sogno mio breve il sole eterno!
“L’alba separa dalla luce l’ombra” di Gabriele D’Annunzio: analisi e commento
Link affiliato
Nella metà dell’Ottocento non era raro che la musica da camera derivasse dalla lirica, come in questo caso. D’Annunzio scrisse il testo della romanza avendo ben presente il proprio destinatario, ovvero l’amico e compagno di gioventù Francesco Paolo Tosti, da lui chiamato il “biondo Apollo del Musagete”: era una collaborazione nata sul filo conduttore della sperimentazione e di una certa curiosità giovanile. La massima aspirazione del Vate, sin dalla primissima giovinezza, come ci viene rivelato dalle lettere a Elda Zucconi, era quella di fare “un valzer in poesia” e si rammaricava di non esserci riuscito.
Le prime romanze composte per Tosti erano firmate da D’Annunzio con lo pseudonimo di “Mario dei Fiori”; ma quella prima collaborazione giocosa negli anni avrebbe preso una piega differente, divenendo un vero e proprio sodalizio. Quattordici anni dopo quegli scritti giovanili, firmati con un falso nome, D’Annunzio diede vita alle Quattro canzoni di Amaranta, intrise della cultura classica e dell’idealismo del vate. Le romanze di questa raccolta risentono fortemente dell’influsso wagneriano, come del resto le Laudi, le poesie contenute nell’Alcyone e il romanzo Il Fuoco (1900) che si conclude proprio con la scena del solenne funerale veneziano di Wagner, in cui il protagonista, alter ego di D’Annunzio stesso, porta sulle spalle la bara del compositore.
L’ispirazione per le Quattro canzoni d’Amaranta era proprio Il Tristano di Richard Wagner. Si evince in particolare nel testo di L’alba separa dalla luce l’ombra che è interamente basato sulla contrapposizione luce/tenebre, notte/giorno, amore/morte. D’Annunzio in questi versi sembra comporre una “musica verbale” con lo scopo di formulare una “morte melodiosa”:
O dolce stelle, è l’ora di morire.
Anche nel Tristano di Wagner a fare da sfondo è principalmente la notte, il momento tanto atteso dai due amanti perché si fa preludio del loro incontro clandestino. L’unione tra gli innamorati avviene nel buio, che si fa annunciatore di un’altra oscurità, ovvero quella della morte, che li vedrà per sempre uniti in un eterno abbraccio. La notte diventa quindi sintesi spirituale di sogno e desiderio e in essa si avvera l’amore del protagonista. La romanza infatti si chiude con un’immagine luminosa, quella del “sole eterno”, manifestarsi simbolico della speranza sebbene questa sembri trovare compimento solo nella morte dei due amanti.
La poesia dannuziana in questione, come si evince dall’analisi, era orientata a una produzione di consumo: nasceva come “aria da salotto”, “canto di sala”, rappresentava l’esordio di quella che sarebbe stata in seguito catalogata con il nome di romanza d’arte italiana. La lirica, così formulata, mira innazitutto alla composizione della bella forma e ci rivela un tratto fondamentale dell’arte poetica di D’Annunzio, ovvero l’estetismo, la perfetta dicotomia tra vita e arte, l’elevazione del bello all’ennesima potenza attraverso l’armonioso procedere tra parola e suono. L’esito è la realizzazione di versi maestosi, aulici, scritti con un ritmo sincopato: non possiamo scindere L’alba separa dalla luce l’ombra dal suo obiettivo, ovvero la fruizione cantata, né tantomeno dalla sua origine di esercizio stilistico. I versi nella canzone sono intonati al mi bemolle maggiore e la melodia presenta un andamento ascendente, che trova la sua apoteosi nel fortissimo finale teso a mettere in evidenza il sorgere del “sole eterno”.
La destinataria delle Quattro canzoni di Amaranta era la contessa Giuseppina Giorgi Mancini, sposata al conte Lorenzo Mancini, il grande amore sfortunato del Vate testimoniato da un lungo carteggio che rivela anche l’impotenza del poeta dinnanzi alla passione amorosa. Lui, nelle lettere, era solito chiamarla con i nomignoli di “Giusini” e “Amaranta”, nom de plume che, appunto, dà il titolo alla raccolta composta di getto in un solo anno, il 1907. Il ricordo d’amore di Giusini era il fondamento dei testi: la contessa Mancini avrebbe segnato, in maniera sconcertante, tutti gli amori successivi di D’Annunzio che, come ripetendo uno schema, vedevano al centro una donna nobile, spesso maggiore di età rispetto al poeta, bella, spesso irraggiungibile.
Giuseppina Mancini aveva la pelle candida, bianca come l’avorio e i capelli rossi, il Vate era solito paragonarla a un fiore, una rosa bianca, un fiore che ha una vita breve, così come breve fu il tempo del loro amore.
Giusini è come una rosa bianca. Una rosa bianca è come Giusini.
L’idea della brevità viene ripresa anche in L’alba separa dalla luce l’ombra, dove emerge un notturno carico di lacrime: di questo grande dolore l’alba, nella sua prima luce, reca ancora le tracce. La felicità teorizzata dal Vate è breve e si può sperimentare solo attraverso il passaggio nella sofferenza. Amaranta, il nome senhal scelto per Giuseppina Mancini, faceva riferimento a un fiore sacro nell’antichità, perché mai appassisce così come, idealmente, è eterno l’amore del poeta per la donna. Viene dichiarato anche nel finale della lirica-romanza in questione:
Ma che dal sangue mio nasca l’aurora
E dal sogno mio breve il sole eterno!
I temi principali dei testi de Le quattro canzoni di Amaranta sono l’amore, la bellezza femminile, il binomio amore e morte. L’alba separa dalla luce l’ombra è il testo più celebre dell’intera raccolta, ancora oggi protagonista di svariate esibizioni canore. Curioso poi pensare al legame tra questa romanza e la vita del poeta vate.
A pochi giorni dalla morte, sfinito dal dolore, Gabriele D’Annunzio sarebbe tornato a ricordare quell’amore mai del tutto compiuto da lui considerato “l’ultima felicità”. Il binomio amore e morte torna dunque, oltre la poesia, anche nella vita vera; come scrisse lo stesso D’Annunzio in una delle ultime lettere a Giuseppina Mancini, la cara “Giusini”, esprimendole tutta la sua riconoscenza per il breve tempo vissuto insieme.
Grazie, ancora una volta, per quell’antica febbre.
Non ho dimenticato nulla.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’alba separa dalla luce l’ombra”: la poesia di Gabriele D’Annunzio che divenne canzone
Lascia il tuo commento