L’islandese che sapeva raccontare storie
- Autore: Non disponibile
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Iperborea
- Anno di pubblicazione: 2024
La benemerita casa editrice Iperborea ha fatto conoscere agli italiani la letteratura scandinava. Con le pagine del suo catalogo si è aperto un mondo sorprendente specialmente riguardo le letterature medioevali, come ad esempio le saghe tradotte per la prima volta nella nostra lingua. Ma non solo.
Il libro che sto per recensire racconta dei cosiddetti “Thettir”, novelle brevi che trattano storie umoristiche, sapienziali o anche boccaccesche ben diverse dai poemi eroici. L’opera che comprende 14 testi si intitola L’islandese che sapeva raccontare storie ed è stato tradotto da Silvia Cosimini (Iperborea, 2024).
Dobbiamo procedere con ordine. L’Islanda tra il X e il XII secolo ha visto nascere una grande letteratura delle origini con il mito dell’eroe fondatore e la stessa isola di ghiaccio è stata rifugio di predoni, avventurieri, gente poco raccomandabile o sfruttata dai re norvegesi che si liberavano di persone scomode mandandole in una regione sperduta nell’Atlantico.
Ciò che interessa è il fatto che accanto a nobili arroganti o schiavi irlandesi prosperano contadini e artigiani (primi fra tutti i fabbri, molto rispettati) che sembravano non avere voce. E invece ce l’avevano, eccome. Si esprimevano in brevi racconti, i sopracitati thettir, che esaltavano la furbizia e la capacità di difendersi dai prepotenti di questi uomini fieri e arguti. Era così che i re norvegesi vedevano i contadini islandesi, cocciuti e poeti nell’animo.
Le vicende delle novelle sono molto semplici, con una struttura fiabistica (eroe - antagonista - prove da superare - riconciliazione) che fa supporre un’origine orale delle storie poi trascritte da scrittori anonimi. Nei racconti, inoltre, il contadino che si presenta davanti al re è protagonista mentre il sovrano gli fa da spalla come non sarebbe mai potuto accadere nella realtà. E i contadini e gli artigiani sanno di non poter contare sulle armi, ma solo sulla loro capacità di tirarsi fuori dai guai.
Ad esempio L’islandese che sapeva raccontare storie si difende dall’accusa di essere in crisi creativa (e quindi inutile per il re) con la dichiarazione di voler raccontare solo fatti immaginari, mentre il re chiede la verità su una spedizione (probabilmente andata male).
C’è spazio anche per l’amore che non è sicuramente stilnovistico, perché la donna viene vista nella sua realtà e anzi in genere i poeti non ne hanno una grande opinione. Un giullare come Iver Iverson può diventare triste a causa di una donna e il re si presta a fare da consolatore in un divertente scambio di ruoli. La figura del re è quella di un bonario capotribù con cui si può trattare e che apprezza l’intelligenza e non le armi.
Si parla anche di altri temi come l’amicizia virile che non va disgiunta dall’invidia che avvelena le corti, ma anche in questo caso vince il più astuto.
Gli islandesi di basso rango non hanno paura neppure del diavolo come nel caso di Porstein Brivido, intrappolato da un avventuriero astuto che lo rimanda all’inferno per disperazione.
I racconti trattano anche del passaggio dal paganesimo al cristianesimo che i re impongono ma non sempre i sudditi accettano e tracce di paganesimo permangono nel modo di pensare del tempo.
L’opera è ben costruita e ci fa pensare a un medioevo diverso da quello che noi conosciamo.
L'islandese che sapeva raccontare storie
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