Ultimo canto di Saffo fu composto da Giacomo Leopardi nel marzo del 1822 e in seguito inserito nella prima edizione dei Canti del 1831. L’opera fu ispirata al poeta di Recanati dalla lettura delle Eroidi di Ovidio in cui veniva narrato l’amore tragico della poetessa per il giovane Faone, come annota lo stesso Leopardi nella premessa inserita nel manoscritto originale:
Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, nell’epistola 15 v.31: “Si mihi difficilis formam natura negavit ingenio formae damna rependo meae”.
La voce della Saffo cantata da Leopardi è, dunque, la voce di Ovidio. Si instaura un’identificazione tra il poeta e la Saffo ovidiana proprio in virtù di quella frase latina nella quale l’autore dell’Infinito si riconosceva: se a me la natura (ostile), dice Saffo nella epistola di Ovidio, negò la bellezza, compensa la mancanza di bellezza con il mio ingegno.
In questa formulazione Leopardi evidentemente si riconosceva e vi vedeva anche l’evocazione della Natura matrigna che avrebbe in seguito preso forma e rappresentazione di donna nel Dialogo della Natura e di un Islandese delle Operette morali. Alla sua Saffo il poeta di Recanati fa pronunciare una sentenza personalissima:
Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor.
“Tutto è oscuro e incomprensibie, tranne il nostro dolore”: una teoria fortemente leopardiana, che già si avvicina alla presa di coscienza dell’“arido vero”.
L’opera di Ovidio citata da Leopardi è inoltre l’unica opera antica che narri l’amore di Saffo per Faone e il conseguente suicidio della poetessa che si getta nel mare dalla rupe di Leucade; tuttavia, mentre il poeta latino tende a svilire la figura di Saffo, che si dichiara “piccola e brutta” nella lettera e diviene subalterna all’amato, Leopardi invece la esalta mettendola su un piedistallo dando alle sue ultime volontà un accento da eroina tragica e al suo desiderio una dimensione cosmica. Il suicidio di Saffo viene mostrato come un atto sublime di libertà interiore, la ribellione nei confronti di una Natura matrigna e di un destino ingrato.
Ultimo canto di Saffo è un’altra maschera di Leopardi che, assumendo le vesti mitiche della poetessa greca, torna a interrogarsi sull’infelicità umana, il fato, la natura matrigna. Le domande della poetessa sembrano anticipare gli angosciosi interrogativi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto nel 1829, in cui verrà teorizzato che ogni mortale nasce alla sventura.
Scopriamone testo, parafrasi e analisi.
“Ultimo canto di Saffo” di Giacomo Leopardi: testo e parafrasi
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.
Serena notte e timoroso raggio della luna al suo tramonto; tu che spunti nel bosco silenzioso in cima alla rupe e ti fai annunciatore del giorno. Oh, mi foste cari quando ancora mi erano ignote le pene del destino. Il dolce spettacolo della natura non reca conforto agli animi infelici. In noi si ravviva una strana gioia quando, tra i campi sconvolti da un vento polveroso, il pesante carro di Giove ci tuona sul capo squarciando l’aria buia e silenziosa. Allora a noi piace nuotare tra le nuvole e le profonde valli, ci piace la fuga delle greggi spaventate e la potenza devastatrice del fiume in piena contro la pericolosa sponda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.
Bello il tuo manto, cielo divino. E bella anche sei tu, terra rugiadosa. Ah, a questa infinita bellezza non può prendere parte l’infelice Saffo e la sua triste sorte stabilita dagli Dei. O Natura, vile, sola ospite dei tuoi superbi regni, a te mi rivolgo supplichevole, alle tue aggrazziate sembianze rivolgo il cuore e lo sguardo. A me non sorride il luogo soleggiato, né mi illumina dalla porta del cielo la luce del mattino; non i saluta il canto dei colorati uccelli né il mormorio delle foglie dei faggi; persino l’acqua del ruscello, raccolta nel nell’alveo dei piegati salici, si sottrae al mio piede malfermo e si dirige verso altre rive profumate.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Di quale colpa terribile, di quale vergognoso sbaglio, mi sono mai macchiata prima della nascita per far sì che a me fosse così ingrato il cielo e sfavorevole il volto della fortuna?
In cosa peccai da bambina, quando la vita è ancora senza colpa e ignara del Male, in modo che poi il filo della mia vita si avvolgesse al filo dell’indomita Parca (la divinità greca che presiedeva alle nascite, Ndr) ormai privo di giovinezza e sfiorito?
Le tue labbra pronunciano parole imperscrutabili, una forza oscura muove gli eventi del destino. Nulla è comprensibile, tranne il nostro dolore.
Sventurata stirpe umana, nascemmo piangendo e la ragione del nostro dolore riposa nel grembo degli Dei. Oh, desideri vani, o speranze degli anni giovani! Giove diede all’apparenza, al bell’aspetto, il dominio eterno e sovrano tra la gente; per quanto si compiano valorose imprese, si abbia talento o capacità poetica e canora, la gloria non splende mai su un corpo deforme.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva.
Moriremo. Allora il nostro corpo indegno resterà a terra e l’anima invece fuggirà verso l’oltretomba (Dite era l’antica divinità latina del mondo sotterraneo, Ndr). E così finalmente si correggerà l’errore crudele del cieco dispensatore del destino umano.
E tu, al quale mi legarono grande amore, fedeltà e un vano e mai sopito desiderio, vivi felice, sempre se mai visse felice sulla terra chi è nato mortale. L’avaro Giove non versò sul mio capo il liquore dolce della felicità, dopo che svanirono gli inganni e i vaghi sogni della mia gioventù. Ogni giorno lieto della nostra giovinezza svanisce presto. Subito subentra la malattia, la vecchiaia e l’ombra della morte. Ecco, ormai di tanti premi sperati e vane illusioni, mi rimane solo il Tartaro (il luogo tenebroso e sotterraneo degli Inferi secondo il mito, Ndr) e il mio ingegno prodigioso appartiene a Proserpina e alla buia notte, alla silenziosa riva.
“Ultimo canto di Saffo” di Giacomo Leopardi: analisi e commento
L’epistola ovidiana e quella frase - citata non a caso dallo stesso Leopardi - avevano senz’altro favorito un’identificazione tra il poeta di Recanati e la poetessa greca. Nel racconto di Ovidio, Saffo è disprezzata dall’amante per il suo corpo deforme: la pena d’amore, il rifiuto, condurranno la poetessa al suicidio. Ma per Leopardi il suicidio di Saffo è invece una lucida presa di coscienza dell’infelicità universale di tutti i mortali: eleva quindi la figura della poetessa di Lesbo a eroina tragica che non parla a nome della propria infelicità individuale, ma sancisce lo stato sventurato dell’umanità di ogni tempo e luogo.
Non è certamente un caso che, nel corso della Canzone, l’io si alterni costantemente al noi: il messaggio leopardiano si svincola dalla singolarità per abbracciare l’universale, come si evince da quel verbo finale e trionfale alla prima persona plurale “Morremo”. Non è solo Saffo che muore, è l’umanità intera che muore o che, comunque, è destinata a perire sconfitta.
Nel finale Leopardi/Saffo giunge a una conclusione perentoria: nel mondo umano delle apparenze, bellezza esteriore e virtù interiore non coincidono. Il poeta giunge a sfatare l’assioma della Grecia Antica “kalos kai agathos”, bello dunque buono, che vedeva una perfetta coincidenza tra la perfezione della forma e le virtù dell’anima. Saffo, che pure è figlia del suo tempo, lo contraddice. Viene così messa in luce l’ingiustizia suprema della Natura che sembra concepire cieca e indifferente i suoi figli.
Il Canto è ricco di riferimenti alla cultura classica, tesi a inserire Saffo nella cornice del proprio tempo: il carro di Giove, le Parche, il regno di Dite, il Tartaro, Prosperpina, che danno alla lirica una connotazione quasi favolistica; ma Leopardi si svincola dal mito e da ogni forma di consolazione che ne deriva affermando il primato della volontà umana. Il gesto compiuto da Saffo - che decide di togliersi la vita - appare pari a quello di una divinità e le conferisce dignità, poiché è lei, infine, a stabilire il proprio destino.
La morte di Saffo segna, idealmente, anche la conclusione della prima stagione poetica di Leopardi: dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, secondo cui l’uomo è irrimediabilmente condannato all’infelicità per propria natura.
La Saffo moderna cantata da Leopardi
La Saffo cantata di Leopardi è straordinariamente moderna, molto lontana dal mito delle poetessa di Lesbo: non patisce solo il tormento e le pene dell’amore, ma è anche esclusa, irrimediabilmente, dalla felicità terrena a causa del suo aspetto e di una sorte sventurata. Inoltre la Saffo di Leopardi, come quella ovidiana è innamorata di un uomo. Ma proprio qui risiede la differenza fondamentale, mentre Ovidio ci presenta una Saffo supplice che implora l’amato di ricambiarla, arde d’amore e desiderio e si strugge per la sua pena; ecco che Leopardi invece lascia l’amore per Faoone in secondo piano, trasformando Saffo in una ferma riscattatrice dell’ingiustizia patita dagli esseri umani, dell’infelicità connaturata alla vita mortale.
La Natura è un altro tema, tipicamente leopardiano, che fa da sfondo al Canto: proprio come Leopardi, Saffo cerca consolazione nella bellezza della natura circostante, ma presto l’idillio viene corrotto dai sentimenti e dall’infelicità che abitano l’eroina. L’apertura del Canto è idilliaca “Placida notte, e verecondo raggio/Della cadente luna”, tuttavia ben presto assume una nota tragica che ci viene già anticipata nella scelta degli aggettivi che tendono a umanizzare la natura, come se si facesse portavoce dei sentimenti della poetessa: il raggio della luna è “verecondo”, quindi cauto, timoroso, pudico, mentre la selva è “tacita”, silente.
La natura prende presto le sembianze della società e del consorzio umano che esclude Saffo a causa della sua diversità. La tensione drammatica, presente sin dalle prime righe, raggiunge l’apice nel finale, quando il presagio della morte si fa tangibile attraverso le metafore e le perifrasi utilizzate per indicare il Regno degli Inferi, rendendo evidente che la scelta è ormai presa.
Leopardi trasforma Saffo in un’eroina tragica e a lei fa pronunciare alcuni dei versi più lapidari e, al contempo, sublimi della sua produzione poetica:
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal.
Ultimo canto di Saffo è un canto buio, quasi senza luce, eppure, chissà come, quando lo leggiamo ci suona indicibilmente consolatorio. La presa di coscienza dell’eroina leopardiana, che rivendica il proprio diritto alla felicità, sembra liberarci dal Male, come una preghiera che ci conforta nel mezzo degli affanni. E allora capiamo, in fondo, che la Saffo di Leopardi non è sola.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’ultimo canto di Saffo” di Giacomo Leopardi: il canto del dolore umano
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