Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composto tra il 22 ottobre e il 9 aprile 1830 a Recanati, è uno dei Canti più noti di Giacomo Leopardi.
Nella poesia il poeta si cala nelle vesti di un pastore e interroga la luna sulla sua condizione umana. Tra il pastore e il suo gregge esiste, infatti, una differenza sostanziale: gli animali vivono beati e non conoscono la sofferenza a cui l’uomo è condannato con la nascita.
La luna, impassibile, non dà nessuna risposta al pastore, lasciandolo solo a struggersi. Persino l’ultima ipotesi di trovare felicità nel volo (la connessione tra volo e felicità è centrale anche nell’Elogio degli uccelli, una delle Operette morali), sfocia nella consapevolezza della tragedia di essere al mondo.
Vediamo ora in maniera più approfondita il testo di Canto notturno di un pastore errante dell’Asia con la parafrasi e l’analisi.
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: il testo
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Parafrasi
Che fai tu nel cielo! Dimmi che fai, o luna silenziosa? Sorgi la sera illuminando i deserti, poi tramonti: non sei ormai stanca di ripercorrere i sentieri eterni del cielo?
Non provi noia, ancora desideri contemplare queste terre?
La vita del pastore è simile alla tua. Si alza appena sorge il sole, porta il gregge oltre il suo campo per vedere altri greggi, altre sorgenti e altri prati; alla fine, stanco, di riposa con l’arrivo della sera: non spera mai di vedere qualcosa di diverso.
Dimmi, o luna, quale significato per il pastore ha la sua vita e che senso ha la vostra per voi astri? Dimmi: dove stiamo andando, io col mio breve vagare e e tu col tuo percorso immortale?
Vecchio e coi capelli bianchi, debole, vestito male e senza scarpe, con un fardello molto pesante da portare sulle spalle, attraverso monti e valli, attraverso sassi taglienti e sabbia alta e cespugli, con vento e tempesta, sia quando è estate che quando è inverno, corre via, respirando affannosamente, attraversa torrenti e paludi e cade e si rialza, e quanto più si affretta, senza mai riposo o tregua, lacero e sanguinante; fino a che non arriva nel posto dove tutte le sue fatiche erano indirizzate fin dal primo momento, e non è altro che un orrendo immenso abisso, precipitando nel quale dimentica tutto.
Vergine luna, è così la vita umana.
L’uomo nasce con fatica e perfino la nascita lo mette a rischio di morte. Prova, innanzitutto, sofferenza e angoscia; e subito la madre e il padre iniziano a consolare il piccolo per essere nato.
Mano a mano che cresce, poi, i genitori lo sostengono e di continuo, tramite azioni e parole, si prodigano per fargli coraggio, consolandolo del fatto di essere umano: non c’è cosa più gradita che i genitori possano fare per i figli.
Ma allora perché mettere al mondo, perché mantenere in vita chi poi bisogna consolare? Se la vita è solo dolore e sofferenza, perché la si sopporta?
Intatta luna, è questa la condizione degli uomini. Tu, però, non sei mortale e probabilmente poco ti importa delle mie parole.
Eppure tu, solitaria ed eterna viandante del cielo, che sei tanto pensierosa, forse anche tu capisci come sia questa vita terrena, cosa siano le nostre sofferenze e i sospiri, che cosa questo morire, questo impallidire estremo del viso, lo scomparire della terra e abbandonare chi abbiamo amato e che per tanto tempo ci ha fatto compagnia. Sicuramente tu capisci il perché delle cose, vedi lo scopo del mattino, della sera e dello scorrere incessante del tempo. Sai, certamente, a quale dei suoi dolci amanti sorride la primavera a chi sia d’aiuto il caldo, cosa procuri l’inverno con il suo ghiaccio.
Mille sono le cose che tu conosci, e altrettante ne riscopri, tutte nascoste a un semplice pastore. Spesso quando ti ammiro mentre sei lassù, silenziosa sulla pianura deserta che, all’estremo orizzonte, confina con il cielo; oppure mentre mi stai dietro, passo dopo passo, a me e al mio gregge; e quando guardo le stelle che luccicano in cielo dico, pensando tra me e me: che cosa fanno tante stelle? Cosa fa lo spazio infinito del cielo, l’immensa volta celesta? Cosa vuol dire questa immensità in cui l’uomo è solo? E cosa sono io?
Questo penso, tra me e me: e non riesco a trovare né un senso né uno scopo, sia per quanto riguarda la vita del vasto e grandioso universo, sia per i tanti esseri che lo abitano; e nemmeno il senso e lo scopo di tanto affaccendarsi, dei movimenti numerosi degli astri e delle cose terrene, che girando senza sosta tornano poi al loro punto di partenza.
Ma tu sicuramente, giovincella immortale, conosci già tutto quanto. Io solo questo capisco e so: che forse qualcun altro otterrà gioia e utilità dal movimento eterno degli astri e dalla mia fragile esistenza; per me, invece, la vita è una condizione di dolore.
O mio gregge che riposi, beato te che, credo, non conosci la tua miseria! Quanta invidia provo per te! Non solo perché soffri di pochi dolori, e ogni fatica, ogni danno, ogni paura che provi, per quanto grande, la dimentichi subito; ma soprattutto perché non hai idea di cosa sia la noia. Quando sei sdraiato all’ombra, sul prato, sei tranquillo e contento; la gran parte della tua esistenza la trascorri senza provare noia.
Anch’io sto seduto sul prato all’ombra, e un pensiero opprime la mia mente, un irrequietezza che mi rode tanto che, pur sedendo tranquillo, mai sono stato più lontano dalla pace o dal riposo.
Eppure, almeno per ora, nulla desidero e non ho alcun vero motivo per lamentarmi.
Non so quanto tu gioisca o di cosa, ma sicuramente sei fortunato. Anche io godo di pochi piaceri, o mio gregge, ma non mi lamento solo per questo.
Se tu sapessi parlare, allora io ti chiederei: dimmi, perché ogni animale che riposa e ozia è contento e io, invece, se giaccio comodamente sono assalito dalla noia?
Forse, se avessi le ali, se potessi volare sopra le nuvole, contando le stelle una a una, o potessi errare come il tuono, da vetta a vetta, sarei più felice, dolce mio gregge, sarei più contento, o candida luna.
Ma no, forse mi sbaglio e il mio pensiero si allontana dalla verità quando guarda alle condizioni degli altri: forse per qualunque forma, in qualsiasi condizione, dentro una tana o in una culla, il giorno della nascita è solo causa di dolore e lutto.
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: commento al testo
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, nel suo delinearsi come narrazione continua, è un componimento particolarmente emblematico della poetica leopardiana; forse il più rappresentativo della sua filosofia.
Il riferimento all’Asia da cui trae origine il componimento (è lo stesso Leopardi a dirlo in un appunto dello Zibaldone) deriva da un racconto letto da Leopardi: il resoconto di un viaggio presso una popolazione dell’Asia centrale, in cui veniva narrato come alcuni pastori si rivolgessero direttamente alla luna coi loro canti.
Il pastore a cui è affidato il canto è però, fin da subito, portavoce del pensiero del poeta. È un pastore-filosofo, che rivolge un disperato tentativo di dialogo a due creature mute, una celeste e lontanissima (la Luna) e una vicina e terrena (il gregge), entrambe ugualmente prive di risposte.
Non è la prima volta che il poeta si rivolge alla Luna (un esempio su tutti è sicuramente l’idillio Alla Luna). A questo topos letterario si sommano altri aspetti tipicamente romantici, tra cui l’ambientazione notturna e l’esotismo.
La poesia è divisa in sei strofe, ognuna con una storia a sé. Gli interlocutori silenziosi del poeta sono la luna e il suo gregge. Nella prima strofa egli si rivolge alla luna, eterna e muta, paragonando le proprie condizioni di pastore a quelle dell’astro, simili per certi versi, ma completamente opposte per altri.
Non ottenendo alcuna risposta, il pastore si interroga sulla sua vita confrontandola con quella del suo gregge e domandandosi perché gli animali, almeno in apparenza, non solo provino meno tormento, ma soprattutto non conoscano la noia.
L’uomo, invece, non solo vive nel dolore fin dalla nascita (tanto che l’atto migliore che un genitore può fare nei confronti dei propri figli è consolarlo), ma è subito vinto dalla noia.
Particolarmente rappresentativa della condizione umana è l’immagine del "vecchierel" che occupa la seconda strofa del componimento: affronta avversità e fatiche indicibili solo per arrivare a un abisso pronto a inghiottirlo.
Ma questa insensatezza e questa inconcepibilità della vita fanno un passo oltre e travolgono tutto ciò che circonda il pastore, che si domanda non solo che scopo possa mai avere l’esistenza dell’uomo, ma quale senso possano mai avere il gregge o il moto degli astri.
Un ultimo lampo di speranza, per il pastore, è il pensiero del volo, che subito viene però rovesciato, ribadendo che la nascita, per ogni creatura, non è altro che fonte di dolore.
Analisi metrica e retorica
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è composto da sei strofe libere di endecasillabi e settenari. L’unica rima ricorrente con regolarità è la rima in -ale con cui si chiude l’ultimo verso di ciascuna strofa.
Nel testo sono presenti numerose figure retoriche, tra cui:
- allitterazioni: in particolare della lettera v (es. "vale"-"vita"-"vostra"-"vita"-"voi"-"vagar") e della lettera s (es. "stanco si riposa in su la sera").
- apostrofe: es. "che fai tu luna in ciel" (v. 1)
- enjambements: es. vv. 12-13; 16-17; 18-19; 26-27...
- anafore: es. "ancor" (vv. 5 e 7), "dimmi" (vv. 16, 18) "perché" (vv. 52, 53 e 56)...
- antitesi: es. "al pastor la sua vita la vostra vita a voi" (vv. 17-18), "questo vagar mio breve il tuo corso immortale" (vv. 19-20)...
- chiasmi: es. "al pastor la sua vita la vostra vita a voi" (vv. 17-18), "uso alcuno, alcun frutto" (v. 97).
- metafore: es. "questo vagar mio breve" (v. 19), "dare al sole" (v. 52), "supremo scolorar del sembiante" (v. 70)...
- anadiplosi: tra i vv. 9-10, 17-18, 65-65.
- iperbole: "abisso orrido, immenso ov’ei precipitando il tutto obblia" (vv. 35-36).
- personificazioni: es. "solinga, eterna peregrina, che si pensosa sei" (vv. 61-62).
- anastrofi: es. "d’ogni celeste, ogni terrena cosa [...] uso alcuno, alcun frutto£ (vv. 94-98), "d’affanno quasi libera vai" (vv. 108-109)...
- allegoria: il viaggio del "vecchierel" che occupa tutta la seconda strofa.
- adynaton: "se tu parlar sapessi, io chiederei" (v. 128), "forse s’avess’io l’ale [...] più felice sarei" (vv. 133-138).
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Leopardi: parafrasi e analisi del testo
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