L’università di Rebibbia
- Autore: Goliarda Sapienza
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
Il nome di Goliarda Sapienza, negli ultimi anni, è legato soprattutto al suo libro, considerato capolavoro e testimonianza della vita, L’arte della gioia, ma la produzione letteraria della scrittrice va ben oltre quel singolo titolo e ci regala altre opere, coincidenti con altrettante fasi esistenziali interessanti da conoscere.
L’università di Rebibbia, è uno di questi, scritto dall’autrice dopo l’esperienza del carcere vissuta proprio a causa della problematica pubblicazione cui andò incontro L’arte della gioia.
Incolpata, e condannata (rea confessa dinanzi al Giudice, in realtà), per furto di gioielli commesso ai danni di una amica, al fine di superare un momento economico difficile, Goliarda Sapienza trasferisce su carta i giorni trascorsi nel carcere romano e li caratterizza, facendo conoscere all’opinione pubblica una realtà gravata da ombre, asperità, ma anche tanti lati umanamente sorprendenti.
Conosco la realtà carceraria per motivi di lavoro e tra le pieghe di questo racconto autobiografico ho trovato, grosso modo, quello che mi aspettavo, anche se il punto di vista del condannato è sempre diverso da ascoltare.
Per questo, L’università di Rebibbia può essere considerato un libro esplicativo per chi volesse conoscere e saperne di più di una realtà certamente non comune ai più. Tra le molte interessanti ricostruzioni che si leggono nel libro c’è soprattutto il racconto della quotidianità che Sapienza descrive senza economia di particolari, e cambiando i punti di vista.
Se quello cui si assiste all’inizio è la descrizione obiettiva dei luoghi, delle atmosfere, delle sensazioni generate dall’impatto con il luogo da parte della protagonista, in seguito la narrazione prosegue con un’impostazione più soggettiva, nella quale lo sguardo cambia, si fa più vicino alle persone, e le inquadra scattando ritratti che parlano più di sentimenti e anima.
Goliarda Sapienza si sofferma sul significato della collettività che si instaura tra le mura carcerarie e la natura che assume in tale condizione di cattività, evidenziandone differenze e somiglianze con il concetto che di essa intendiamo nel mondo esterno:
Una piccola collettività dove le tue azioni sono seguite, approvate se sei nel giusto, insomma riconosciute. Tutte capiscono perfettamente chi sei - e tu lo senti - in poche parole non sei sola come fuori…Non c’è vita senza collettività, è cosa risaputa: qui ne hai la controprova, non c’è vita senza lo specchio degli altri…
Proprio lo spostamento continuo del punto di osservazione, che oscilla tra singolare e plurale, tra persona e gruppi, sia che si tratti delle guardiane (così è nel gergo della cella definito il personale penitenziario) che di detenute, unito alla mutazione del tono narrativo che si fa via, via più intimo, permette all’autrice, e di conseguenza al lettore, di assistere a un interessante passaggio emotivo: si va dall’orientarsi (nel luogo) al ritrovarsi (in sé stessi). Questo ritrovare sé stessi è un processo che Sapienza descrive come una necessità primaria che il carcere può acuire al punto da svelare le anime e il vero sé come mai accaduto prima nella vita di tutti i giorni. Come sembra descrivere sia accaduto anche a lei.
Così facendo, Sapienza mette il lettore di fronte a sé stesso, lo accompagna per i ballatoi su cui affacciano le celle, lo ferma davanti ai pesanti cancelli di ferro, aspettando che si aprano per condurlo nei meandri della prigionia; è così che gli occhi captano la scarsa luce che penetra dalle finestre, a volte solo piccole feritoie, come nel caso delle celle di isolamento; così, è preso per mano, invitato a riflettere su particolari che sono un misto di umanità e disumanità al tempo stesso, dove il percorso è:
Un lungo budello che scivola inesorabilmente verso il fondo senza un appiglio per le mani della fantasia al quale potersi aggrappare.
Complice, nell’ottenere questo lavoro di immedesimazione, è l’uso di un ritmo narrativo rilassato, dilatato, a somiglianza di quello con cui le giornate trascorrono in carcere; uno stile asciutto, realistico che aiuta a rimanere nell’atmosfera e dà modo di indugiare nelle varie situazioni descritte, cogliendone anche le sfumature meno esplicite.
Che si tratti di un divertente pranzo comune nella cella di una detenuta cinese (uno dei tratti più vividi e ben riusciti del libro), chiamata Suzie Wong, o della rivolta caotica di tutte a sostegno di una delle detenute che vuole, a ogni costo, uscire per seguire il suo uomo, e di cui Sapienza racconta la violenta repressione, il racconto svela un carcere femminile umano, vivo, vero, pieno di debolezze, ma anche di punti di forza che emergono proprio nella segregazione comune, nella solidarietà che c’è, ma esce solo quando serve, quasi a superare la retorica, la prevedibilità: dell’una per tutte tutte per una.
La scrittrice/detenuta, usando un tono che, a tratti, diventa anche interrogativo si sofferma e accende i riflettori anche sulla necessità dell’uso della forza in un luogo dove la forza dell’esistenza è già messa a dura prova, fiaccata.
La scrittrice conoscerà molto di sé dopo questa esperienza che la cambierà profondamente, trasmettendola al lettore quasi con un senso di sorpresa priva di indulgenza:
Né tu ti sentirai mai più una di fuori, né loro - quelli di prima - ti riterranno mai più una di loro. Vedrai: quando uscirai ti porteranno magari dei fiori, ti diranno benvenuta, ti abbracceranno, ma il loro sguardo sarà cambiato per sempre quando si poserà su di te.
Goliarda Sapienza ci appare, piuttosto che scrittrice, una persona che scopre, a un certo punto della sua vita, dei lati di sé sconosciuti, una donna che scopre quanto ci sia ancora da imparare e che quello che ha imparato fino a quel momento non fosse neppure sufficiente perché potesse dire di aver vissuto, fin lì, una vita consapevole. Il carcere passa da luogo ideale, immaginato, a luogo compreso, conosciuto e così i suoi effetti sulla vita di chi vi passa:
Non c’è redenzione in questo luogo! […] La differenza di classe vige qui come fuori, insormontabile: il carcere è lo spettro o l’ombra della società che lo produce, è noto.
È da questo che nasce il concetto di carcere di Rebibbia come università; come posto capace di insegnare molte più cose di quante non si pensi. Un luogo dove non c’è mai niente di scontato, niente di prevedibile; dove le persone si costruiscono come singoli e come gruppo/collettività in continuazione, riconoscendosi l’una con l’altra, come guardandosi allo specchio: “Come tutte qua è approdata al linguaggio profondo e semplice delle emozioni, così che lingue dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri moventi (ed esigenze) del profondo: questo fa di Rebibbia una grande università cosmopolita dove chiunque, se vuole, può imparare il linguaggio primo”.
Il libro è per queste ragioni un prezioso elaborato di vita vissuta che aiuta a comprendere, non solo la realtà carceraria, ma anche la stessa autrice. Ci aiuta a riformulare l’idea del mondo quotidiano come siamo abituati a concepirlo, senza forse capirlo del tutto.
In questa opera, Sapienza è una persona a nudo, che elabora un tratto del suo percorso esistenziale, validandolo grazie alle esistenze altrui, profondamente dissimili eppure somiglianti al tempo stesso.
Ne nascerà un potente “bisogno” di trasmettere, attraverso la sua scrittura, anche a chi vorrà sapere, leggendo, che il carcere, in fondo, è uno dei posti più umani che possano esistere, fatto di:
Persone che proprio vanno addosso come un bel paltò caldo quando comincia la cattiva stagione.
L'università di Rebibbia
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