La fabbrica dell’Assoluto
- Autore: Karel Čapek
- Genere: Fantascienza
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Voland
- Anno di pubblicazione: 2020
La prima domanda che verrebbe da porsi, se si ha a che fare con un romanzo di fantapolitica scritto in Cecoslovacchia nel 1922, è: cosa può avere ancora da dirci? E quindi, subito dopo: perché ripubblicarlo in Italia a un secolo di distanza? La risposta, nemmeno troppo difficile da intuire, risiede calvinianamente nel fatto che un buon libro, se è tale, non finisce mai di dire quello che ha da dire.
Lo ha dimostrato Voland, casa editrice indipendente ancora una volta in prima linea nella (ri)scoperta e nella valorizzazione di voci dell’Est Europa troppo poco note nel nostro Paese, che questa estate ha riproposto in libreria La fabbrica dell’Assoluto di Karel Čapek (1890-1938), a ben 36 anni di distanza dalla sua prima e unica edizione italiana. L’opera, curata da Giuseppe Dierna, si rimette così in dialogo con il nostro tempo con risultati sorprendenti, dimostrandoci in primis che l’ingegno di una buona penna non si lascia né superare né smentire dalla storia e, in seconda battuta, che la natura umana dal primo dopoguerra a questa parte non è cambiata poi tanto. Ma andiamo con ordine.
Il casus belli dell’opera è costituito una parola in -zione che il magnate G.H. Bondy pensa di avere notato leggendo un periodico. Quando ricontrolla le pagine a ritroso, nota che si tratta del termine invenzione, presente in un annuncio il cui autore sembrerebbe un ex compagno di scuola del ricco industriale. Convinto di avere l’opportunità di aiutare una vecchia conoscenza, pur senza grandi prospettive di guadagno, Bondy decide allora di andare a visitare l’inserzionista per comprarne il brevetto e scopre l’esistenza di un Carburatore capace di disintegrare la materia per trasformarla in energia senza nessuno spreco – o quasi.
L’unico inconveniente? Il Perfect Carburator,
“col fatto che scinde in maniera totale la materia, genera un sottoprodotto: il puro Assoluto allo stato libero. Dio in una forma chimicamente pura. Se posso dire così, da un lato getta fuori energia meccanica e, dall’altro, sostanza divina. Più o meno come quando scindi l’acqua in idrogeno e ossigeno, solo in proporzioni di gran lunga maggiori” (p. 45).
Da qui parte una narrazione brillante, in cui società e singoli individui si ritrovano – per lo più a loro insaputa – influenzati dalla presenza intangibile dell’Assoluto. Le comunità di diversi culti e Stati tra i più potenti del mondo cercano così di dare un nome e dei titoli alle scorie di divinità panteista che si diffondono nell’etere, aggiornando in sostanza certi pattern per affermare ancora una volta la loro supremazia sul resto del mondo. Dall’altra parte sempre più operai, contadini, giornalisti e teologi stravolgono la loro esistenza su una base filantropica e associazionista mai vista prima.
Purtroppo, però, le conseguenze di questa macchina animista portano inevitabilmente a scompensi economici, religiosi e diplomatici su scala mondiale, fino a quando a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta scoppia un conflitto inevitabile, che include un episodio analogo alla marcia su Roma e che secondo Čapek è perfino peggiore della Grande Guerra del 1914. In un’intuizione simile, messa nero su bianco quando ancora totalitarismi, olocausto e bombe atomiche erano un infausto miraggio, si misura pertanto il genio dell’autore, che all’indomani della rivoluzione russa aveva già individuato un possibile cammino collettivo per il XX secolo intrecciando la chimica con la filosofia e la tecnologia con la fisica e la finanza.
Attenzione, però: è interessante leggere Čapek perché è profetico come Evgenij Zamjatin, che nel 1924 pubblicava una distopia conturbante come Noi in anticipo su Orwell di 25 anni? Non solo. Non più, anzi, dato che il fascino di un passato parallelo non sarebbe sufficiente per agganciarci a un romanzo pubblicato nel 2020. È interessante leggerlo per il suo estro immaginifico e poliedrico, per le gustose incursioni metanarrative della voce narrante, per la controversa e dissacrante riflessione metafisica che esonda da ogni capitolo, per le illustrazioni in bianco e nero grazie a cui ci si immerge nell’atmosfera surreale e satirica dell’opera, per uno stile fresco e ricco che presta il fianco a un ritmo di lettura appassionante, motivi per cui La fabbrica dell’Assoluto si tiene in piedi al di sopra e al di là del genere in cui si inserisce con spassosa intelligenza.
In tal senso i guizzi della prosa apocalittica di Čapek non ricordano soltanto colossi del secolo scorso come Daniil Charms o H.G. Wells, ma anche storie più recenti come Lo scarafaggio di Ian McEwan, tradotto in Italia da Susanna Basso per Einaudi, o esordi del calibro di Configurazione Tundra di Elena Giorgiana Mirabelli per Tunué: il filo rosso delle loro penne consiste, dopotutto, in una suggestione che entra ed esce dalla collocazione temporale del singolo romanzo, per dialogare con estrema naturalezza con i valori, le aspettative e i vizi dell’animo umano senza invecchiare all’insegna della retorica o di un borioso déjà-vu.
Nel caso specifico (e per rispondere alla domanda iniziale), un progresso della scienza che riporta l’Assoluto sulla Terra è quanto di più audace e avveniristico si possa chiedere a un’opera che celebra con spudorata grazia i suoi 98 anni di vita.
La fabbrica dell’Assoluto
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