La morte ci fa belle
- Autore: Francesca Serra
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
Donna è bello, se morta ancora di più. Messa in soldoni sarebbe questa la tesi del nuovo (provocatorio) lavoro di Francesca Serra che dopo le pulci alle pornolettrici in “Le brave ragazze non leggono romanzi” (Bollati Boringhieri) qui aggiorna al Kalòs (al Bello) il binomio freudiano Amore-Morte.
138 pagine di spigliata erudizione per dimostrare come, più che con la necrofilia, l’attrazione fatale per la donna bella & defunta anche in letteratura è imparentata stretta con lo sciovinismo di stampo maschile: così nella poesia, così nella produzione letteraria andata a nozze (se mi si passa il gioco di parole) con la sposa-cadavere e così finanche nella pittura e in una certa produzione pubblicitaria. Dallo statuario ritratto di Ophelia galleggiante tra le ninfee ai racconti gotico-fantastici di Poe, Hoffman e Gautier, al calendario di ragazze nude abbarbicate a bare di un’impresa di pompe funebri, lo sguardo dell’uomo sulla donna è sempre reificante. Persino la sublimazione letteraria della sua morte la disincarna, trasformandola in icona, dunque, una volta di più, in femmina-cosa. A dare retta alla Serra
“(…) la bella morta è stata messa al centro dei riflettori (…) in ragione di un calcolo niente affatto filantropico. Levate il mattoncino della sposa cadavere dal monumento alla gloria maschile e tutto crolla. Questo è il calcolo che le dà tanto valore. Senza di lei il carrozzone di santi poeti eroi che da secoli si aggira nei nostri libri, ma anche nelle nostre strade e, in definitiva, nelle nostre teste, si polverizzerebbe sotto il peso della sua stessa retorica. E del ridicolo che sempre l’accompagna”.
Capita l’antifona? E siamo appena a pag. 12 del libro. Il resto è sulla scia: arguto, insolito, bulimico di suggestioni culturali, pungente, un viaggio controcorrente (la donna non viene uccisa dalla forza bruta ma da un surplus devozionale/strumentale) in quattro stazioni – Funerali, Gioielli, Animali, Merci –, all’interno delle quali potete incrociare, riperdere, quindi incrociare di nuovo, Lemuel Gulliver come Baudeleire, le isole Mauritius e i funerali di Victor Hugo, Dante, Petrarca, vecchiacce e altri simboli mortiferi, Frankenstein e Maupassant, l’idolatria e la mercificazione, in una vertigine di rimandi e scambi di prospettiva, tanto accattivante quanto lucidissima e – sottotraccia - pungente. Perché, in ultima analisi, “La morte ci fa belle” (Bollati Boringhieri, 2013) è qualcosa di “ulteriore” al consueto lavoro saggistico: è un pamphlet a tesi, un misurato memento post-femminista che alla stereotipia castrante degli slogan sostituisce l’intelligenza e il fioretto dell’ironia letteraria.
Un libro che dietro la leggiadria apparente della forma sa come procedere col passo possente e la memoria lunga dell’elefante. Un libro che sa dire pane al pane, e lo sa dire con eleganza sublime.
“L’omicidio femminile è un mito fondativo della nostra cultura. Provate a levare di mezzo tutte le donne nude. Provate a cancellare tutte le donne morte. Cosa rimarrebbe della nostra letteratura? Dei nostri riferimenti iconografici? Del nostro sistema culturale?”
Qualcuno dei lettori-maschi avrebbe ancora qualcosa da obiettare?
La morte ci fa belle
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