La morte è certa, la vita no
- Autore: Michele Pettene
- Genere: Sport
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2015
“Annaspare senza forze nell’Adriatico a un passo dalla costa.”
Non era stato facile fare innamorare Klod della pallacanestro. L’undicenne pensava solo al calcio, anche se maneggiare quella grossa palla arancione dai salesiani non gli dispiaceva. Il papà gli aveva montato un canestro, uno dei pochi nella Scutari postcomunista. Nello spiazzo davanti alla loro abitazione cresceva il più grande giocatore albanese di basket: Klaudio Ndoja. Ma niente sarebbe stato facile in quella fase della vita, come Michele Pettene racconta nel libro “La morte è certa, la vita no”(Imprimatur 2015, 318 pagine 16,50 euro).
Non c’erano agi nell’Albania dei primi anni Novanta, non c’era sicurezza, non c’era futuro, dopo la morte del dittatore Enver Hoxa e la caduta del muro di Berlino, pochi anni più tardi. Quel Paese fresco di democrazia si ritrovava talmente povero e primitivo, che nei rari campetti (si giocava solo all’aperto, ma si pregava al chiuso) i piccoli dovevano accontentarsi del tabellone senza nemmeno il ferro del cesto. Il tiro alla tabella non eccitava Klaudio, che preferiva allenarsi al passaggio o al palleggio coi birilli. Sicchè quel canestro bello e pronto era un piccolo miracolo.
Le prime vere sfide le aveva disputate lì, contro i clienti del padre, in attesa che le loro macchine venissero riparate dal bravo Paulin Ndoja.
A nove anni la prima squadra, lo Scutari Basket. Il ragazzino cresceva tecnicamente, grazie alla voglia innata di lavorare seriamente e ad una dedizione totale, insolita in un giovanissimo. Il talento cominciava a manifestarsi precocemente rispetto ai coetanei- Le mani avevano qualcosa di più e l’altezza sopra la media faceva il resto. Lo chiamavano Holle, lo smilzo. Il trasferimento a un’altra squadra giovanile incrementò le sue doti. Ora aveva il vantaggio di allenarsi al coperto e i miglioramenti si vedevano di partita in partita: grinta, agonismo, volontà ferma di vincere, costanza nell’allenamento. Tutto in età poco più che da pulcino.
Ma la situazione politica e sociale in Albania precipitava nel 1991. La bancarotta collettiva provocata dalle “piramidi finanziarie” e il dilagare della malavita avevano reso il Paese un inferno invivibile. Le armi erano in mano a chiunque e i proiettili vaganti falciavano indiscriminatamente, senza distinguere gli innocenti. Il ferimento casuale della sorellina di Klod convinse il padre a portare la famiglia in Italia, a tutti i costi. Infatti, costava tantissimo, un milione e mezzo di lire italiane a persona, da pagare alla mafia albanese. I quattro Ndoja raggiungono Valona per l’imbarco clandestino, solo che qualcosa va storto e il furgone dov’è montato il dodicenne, separato dai suoi, è bloccato dalla polizia locale. Il ragazzo è interrogato e percosso brutalmente alla mascella. Vogliono i nomi degli scafisti, che non può rivelare perchè ovviamente non li conosce – ma i gli agenti vengono corrotti, i gruppi ricomposti e l’avventura in Adriatico può cominciare. Vecchie imbarcazioni di ferro arrugginite, gli uomini nella stiva, le donne all’esterno, aggrappate allo scafo, per impietosire chi controlla. Anche le bambine. Non c’è pietà. È un affare. Business mafioso.
Mare in burrasca e nella stiva anche un carico di cocaina. Ed è per salvaguardare quel materiale prezioso e sbarcarlo distante senza dare nell’occhio che i criminali fanno scendere tutti tra le onde a quaranta metri dalla riva. Klod annaspa al buio, muove disperatamente braccia e gambe e intanto guarda intorno. Molti annegano quella notte, a un passo dalla salvezza. Il mare è gelido a febbraio. La mamma si muove piano, poco distante. Più indietro, emergono appena le teste del papà e della sorellina che tiene sulle spalle. Vento, marosi, spruzzi, pioggia a dirotto rendono tutto estremamente difficile.
Sono pagine da vero romanzo. È un’esperienza che hanno affrontato a migliaia ed altri continuano ad affrontare nel Canale di Sicilia. Morire, a un passo dalla costa, irraggiungibile per le forze che vengono meno, esaurite dal gelo e dalla disperazione.
In Italia non li aspettava un atteggiamento favorevole verso gli albanesi. Con tanta brava gente, erano sbarcati molti poco di buono e si facevano notare: furti, spaccio, prostituzione.
“Albanese” era diventato per gli italiani sinonimo di delinquente. Significava nella migliore delle ipotesi affrontare la condizione di clandestino invisibile, trasalire ad ogni divisa, poter perdere in un niente quel poco che si era riusciti a costruire.
“La morte è certa, la vita no” è un libro che fa pensare. Vivere nei panni di chi non gode del diritto di cittadinanza è completamente diverso. È molto duro e, sinceramente, fa male al cuore. Non tutti sanno essere insensibili, come sono diventati tanti italiani.
La morte è certa, la vita no. La storia di Klaudio Ndoja
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