La solitudine è una costante nell’opera di Giacomo Leopardi, a partire dallo Zibaldone, il suo diario di vita e di pensiero.
Nel 1817 Leopardi annota per la prima volta l’espressione vita solitaria per fare riferimento alla propria condizione esistenziale che, oltretutto, come ci tiene a precisare, ha effetti debilitanti e negativi sulla sua salute.
All’epoca Leopardi aveva soltanto diciannove anni, ma già identificava la “solitudine” come il suo male poiché essa favoriva la sua “esasperata attività di pensiero”. Tuttavia, sempre nelle pagine meditative dello Zibaldone, Leopardi teorizza la solitudine come uno stato d’animo necessario all’uomo metafisico, dunque all’uomo riflessivo che, vivendo la “vita solitaria”, si concede necessariamente alla filosofia astratta. Si pensi anche al personaggio del filosofo Amelio, che appare come alter ego del poeta stesso nell’Operetta morale dal titolo L’elogio degli uccelli; costui non a caso viene introdotto con l’epiteto di “filosofo solitario” rimarcando un’attitudine contemplativa che è propria dello stesso Leopardi.
La consolazione della solitudine, annotava il poeta di Recanati nello Zibaldone (678,3, 20 febbraio 1821), deriva primariamente dalle illusioni che essa dischiude, poiché la società “manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili”.
La massima espressione lirica di questa concezione è il canto La vita solitaria, un idillio in endecasillabi sciolti, composto a Recanati proprio fra l’estate e l’autunno 1821 (dunque successivamente all’annotazione diaristica sopracitata), e pubblicato la prima volta nel Nuovo Ricoglitore di Milano del gennaio 1826. Nel canto troviamo anche un’esaltazione del tema della “vita solitaria”, tipico della poesia italiana, ampiamente dibattuto già in Petrarca che ne sancì il trionfo nel sonetto Solo et pensoso.
Nella sua Vita solitaria invece Leopardi condensa una summa dei temi precedentemente trattati negli idilli e centrali nella sua poetica, ovvero: la centralità del paesaggio, la fine della gioventù, la conversazione con la luna, l’amore.
Scopriamone testo, parafrasi e analisi.
“La vita solitaria” di Giacomo Leopardi: testo e parafrasi
La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
La pioggia del mattino battendo sui vetri mi risveglia dal sonno, quando la gallinella esulta battendo le ali nel pollaio, e il contadino si affaccia al balcone della sua casa di prima mattina per ammirare la campagna (probabilmente si trattava di Villa San Leopardo, la residenza estiva della famiglia Leopardi, Ndr) e il lavoro svolto, e il sole annuncia il giorno affacciandosi nel cielo con i suoi raggi tremuli facendo capolino tra le nuvole del temporale estivo ormai diradate.
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benchè scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Mi levo dal letto e benedico le lievi nuvolette, il primo canto degli uccelli, l’aria fresca e le ridenti pianure, poiché ho conosciuto la prigionia delle mura cittadine (qui il riferimento è all’odiata Recanati, il “natio borgo selvaggio”), là dove si sparge l’odio tra le chiacchiere della gente e il dolore mi è stato compagno, tanto che dolorosamente io vivo e presto io qui (sottinteso sempre a Recanati) morirò, benché la natura in questi luoghi di campagna mi dimostri una certa pietà.
E tu (vocativo, passaggio dall’io al tu, Ndr), oh natura, rivolgi il tuo sguardo agli infelici e però disdegni le sciagure, gli affanni, servi solo la regina felicità (ovvero: favorisci solo chi è felice); mentre per gli infelici non rimane, in cielo o in terra, alcuna via di scampo alle proprie sofferenze se non il pugnale (il “ferro”, metonimia, Ndr).
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
A volte mi siedo in un “cantuccio solitario”, sopra una collinetta che si trova al margine di un lago circondato da piante silenziose (questo locus amoenus sembra anticipare l’atmosfera dell’Infinito, Ndr). In questo punto, quando giunge il pomeriggio (il meriggio era un momento amato dal poeta che scriveva “tutto brilla nella natura nell’istante del meriggio”, Ndr) e nel cielo il sole dipinge la propria tranquilla immagine e tutto è immobile, non c’è una foglia né un filo d’erba che si muova al vento, non c’è un’onda che si increspi né uno stridio di cicala, né un battito d’ali di uccello su un ramo, né una farfalla ronzante nell’aria, non odi né una voce né senti un movimento.
In quelle pianure dimora “un’altissima quiete” (che prefigura la “profondissima quiete” dell’Infinito, ma i critici sono soliti identificarla con la morte) tanto che io dimentico quasi me stesso e il mondo circostante sedendo immobile. E già mi sembra che il mio corpo giaccia nel sonno eterno, che più nessun sentimento le commuova, e che la loro quiete si confonda con il silenzio eterno del luogo.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s’apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s’accinge all’opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m’accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
Viene qui proposto il tema dell’amore, come sottolinea il vocativo: “Amore, amore!”. Amore, da molto tempo hai abbandonato il mio cuore che pure un giorno era così pieno e caldo, addirittura rovente di tale sentimento. La sciagura lo strinse con la sua fredda mano e ora si è tramutato in ghiaccio, anche se ancora nel fiore della giovinezza. Mi ricordo il tempo in cui tu amore mi scendesti nel petto. Era quel dolce passato che non può più tornare indietro in cui il mondo si dischiude dinnanzi allo sguardo giovane e l’apparenza, pure infelice, del mondo gli sorride come un auspicio di paradiso. Allora al giovane (qui definito come “garzoncello”, riprendendo il “garzoncello scherzoso” del Sabato del villaggio) il cuore si accende di speranza e desiderio e gli balza nel petto vivace; e già il misero uomo mortale si accinge a compiere l’opera della propria breve vita come dedicandosi a una danza o a un gioco.
Ma non mi accorsi di te così velocemente, o Amore, il destino aveva già spezzato la mia vita e i miei occhi non potevano far altro che piangere, anche se talvolta, tra le pianure soleggiate, quando brilla immobile l’aurora o il sole inonda i tetti, le colline e le campagne, scorgo il volto di una giovinetta in età da marito.
O qualor nella placida quiete
D’estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L’erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all’opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L’arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
Oppure talvolta, quando nella tranquilla notte estiva, cammino nei pressi delle ville soffermandomi pensoso a contemplare la terra disabitata, odo il canto di una fanciulla intenta nelle sue opere (probabilmente lavori di cucito o ricamo) risuonare nelle stanze solitarie; allora il mio cuore di pietra si anima e si agita in un palpito prima di tornare nel suo sonno immobile, dacché da tempo è estranea ogni felicità al mio petto.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L’orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l’acciaro
Del pallido ladron ch’a teso orecchio
Il fragor delle rote e de’ cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell’armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Tema della luna: cara luna, qui troviamo l’invocazione alla luna, altro tema classico degli idilli leopardiani, come testimonia Alla luna e il celebre verso Io venia pien d’angoscia a rimirarti. Ma qui la notte ha una pervenza ombrosa, delittuosa. O cara luna, illuminate dal raggio della tua luce mite danzano le lepri nel bosco, e se ne duole al mattino il cacciatore che trova le orme sparpagliate, intricate che lo portano fuori strada e lontano dalla preda. Salve, oh buona regina della notte. Il tuo raggio scende ostile negli antri del bosco e i valichi montani oppure nelle case lasciate vuote dai proprietari, illuminando il coltello del ladro che, agitato, tende l’orecchio al rumore delle carrozze e dei cavalli. Da lontano osserva o ascolta il rumore dei passi nella strada silenziosa e poi, con il tintinnare minaccioso delle armi e la voce imperiosa, il brigante spaventa il passeggiatore solitario, lasciandolo poi nudo, derubato e appena vivo in mezzo ai sassi. Intanto l’amante clandestino, timoroso di essere visto da qualcuno, cammina all’ombra delle case e segue l’ombra da te proiettata, timoroso delle luci che provengono dai balconi perché indicano che in casa c’è qualcuno in grado di vederlo. Sfavorevole alle malvage menti, a me il tuo aspetto, o luna, è sempre stato sempre lieto: forse per queste pianure dove non vedo altro che liete colline dinnanzi al mio sguardo. Benché io fossi diverso dai ladri e dai manigoldi ho sempre amato il tuo raggio e ora che sono in campagna lo loderò in ogni caso, poiché nella luce del tuo raggio scoprivo degli aspetti umani.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell’etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe’ boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l’erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m’avanza.
Lo loderò sempre, o luna, ora che ti vedo veleggiare tra le nubi come una barca, serena dominatrice del cielo, mentre contempli lacrimevole questa triste dimora umana (la Terra). Mi vedrai spesso solitario e silenzioso mentre cammino vagando per i boschi e le pianure verdeggianti, o mentre siedo sopra i colli, contento, almeno finché la forza e il fiato mi sosterranno.
“La vita solitaria” di Giacomo Leopardi: analisi e commento
Giuseppe Ungaretti, durante una sua lezione universitaria presso l’università di Roma, definì quella di Giacomo Leopardi come una “solitudine senza scampo”.
Il tema della solitudine è infatti la chiave di lettura dominante in questo canto, con tutti i contrasti che Leopardi le attribuisce, dunque sia nella sua natura benigna che in quella matrigna. “Gli uomini che vivono in solitudine sono inclinatissimi al metodo”, scrive l’autore nello Zibaldone, poiché diventano metodici sino all’eccesso.
E, sempre nelle pagine del suo diario di pensieri, Leopardi sosteneva che un uomo che vive in solitudine recupera sé stesso:
L’uomo disingannato, stanco, espero, esaurito, di tutti i desideri, nella solitudine, a poco a poco si rifà, ricupera sé stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d’ingegno, e sventuratissimo.
In questa riflessione possiamo rintracciare la morale de La vita solitaria, che in definitiva si conclude con un ritratto tutto sommato compiaciuto del poeta, seduto sul suo solitario colle in attitudine contemplativa.
La solitudine, specialmente nei tempi moderni, per Leopardi assume una valenza positiva poiché diventa una sorta di conforto. Questo genere di solitudine benefica però non deriva dalla conoscenza dell’arido vero (meglio teorizzato nelle Operette morali), ma dalla contemplazione serena delle illusioni e dall’oblio che ne deriva. Nel saggio Sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Leopardi attribuiva una valenza positiva alla solitudine, poiché aveva una funzione consolatoria in opposizione al “solido nulla” che costituiva la realtà:
La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe e indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato interissimo e profondissimo.
La solitudine descritta ne La vita solitaria è appunto quella contemplativa che accentua la facoltà dell’immaginazione, tipica del fanciullo.
Non manca, nel canto, il riferimento alla giovinezza perduta - benché Leopardi fosse ancora giovanissimo all’epoca della stesura di questa lirica - in quanto il poeta sente il proprio cuore inaridito, fattosi ormai pietroso in quanto ha smarrito le dolci illusioni e il conforto del pensiero amoroso. Però, nel conforto della solitudine, nella sua vita pensosa e schiva, il poeta riesce a recuperare questo stato d’animo di astrazione che lo consola con l’inganno consueto dell’immaginazione. Le illusioni ricongiungono l’idillio della natura e la vita: “e le morte stagion e la presente e viva e il suon di lei”.
La vita solitaria descrive il medesimo stato d’animo de L’Infinito, come annuncia il poeta “Talor m’assido in solitaria parte”, è questo il processo che crea e annunzia la visione dell’Infinito dove, appunto, grazie alla forza immaginativa il possibile diventa possibile.
e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
L’Infinito fu composto originariamente nel 1819, dunque risulta precedente alla Vita solitaria. Lo stato d’animo che ci sta descrivendo il poeta è lo stesso. Anche nei versi del Canto è presente il riferimento al mare, la luna nel finale diventa una barca che veleggia nel cielo. La solitudine è ciò che consente a Giacomo Leopardi il naufragare nello spazio dell’Infinito, il contratto con l’eterno e la profondissima quiete da lui anelata.
La “solitudine senza scampo” di Leopardi - come la definiva Ungaretti - era in realtà ciò che riconciliava il poeta con la vita, la vera ragione della sua voce poetica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La vita solitaria” di Giacomo Leopardi: un canto di solitudine
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