La zona rossa
- Autore: Raffaele Castelli Cornacchia
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2020
Ogni poeta, come ogni artista in generale, sceglie la sua maschera; l’autore de La zona rossa (Transeuropa, 2020), Raffaele Castelli Cornacchia, di facce ce ne mette due e le espone entrambe nel tentativo di avere così due sguardi diversi, di comprendere le diverse - spesso opposte - posizioni dei suoi lettori. Come dice lui stesso:
“Nella ricerca della giusta misura fra oggettivo e soggettivo, fra oggetto e soggetto del dibattito culturale contemporaneo. L’atto più rivoluzionario che oggi ci possa essere”.
Come le due anime Faustiane di Goethe del destino e del mendicante che si riconciliano. Già in questo Raffaele Castelli Cornacchia si allontana decisamente dalla tendenza odierna di esprimere forme e contenuti preferibilmente verso i propri affiliati. Di riunirsi in gruppi di poeti, editori e lettori accomunati da sensibilità e idee affini. Le affinità elettive della poesia. Il luogo sicuro in cui agire. Contro le quali in nostro oppone il primato della verità (dei fatti) e della ragione (delle idee) prendendosene costi e rischi. Quelli di non piacere a tutti magari, o di dare fastidio a qualcuno. Perché per lui le cose non sono solo belle o brutte.
“A vedercelo il bello in tutto / riprendiamo a elemosinare / perle dai mendicanti di servizi / come dei ramingi senza diritti / come dei servimuti al mercato.”
Nella poetica di Raffaele Castelli Cornacchia ci sono Parmenide, fra le ricerche della maturità, e i carmelitani, i popolani di quartiene da cui proviene. E non credetegli se vi dice che non è condizionato da nulla, perché - fortunatamente - tutto lo condiziona. Anche in una città di provincia come la sua Brescia, così lontana dalle enclave letterarie e poetiche nazionali e dalla quale lancia l’invettiva che come una parola d’ordine pervade tutta l’opera:
“Basta non toccare. Non respirare. / Non azzardarsi al sentir dolore.”
E tutto potrebbe finire qui, si potrebbe azzardare, se non fosse che il nichilismo (di severiniana memoria), che il nostro autore dimostra di conoscere bene e di condividere a fondo, gli impone di ripromettersi che nulla viene dal nulla: nemmeno i tragici avvenimenti di cui si tratta ne La zona rossa. Non è colpa di nessun dio e oneri e onori gravano tutti sulle spalle degli uomini. Tutto è su un piano orizzontale dal quale bisogna accucciarsi, sporgersi e mettersi sulle punte per vedere oltre. E forse anche il nostro poeta ben ci prova, formalmente, a essere così meravigliosamente inattuale perché, in fondo, si vorrebbe soltanto dimenticare ciò che è successo. Perché la zona rossa non cerca ragioni o giustizia, ma di soddisfare la fame di verità degli illuministi senza dei. Il resto non conta. All’autore di questo libro non importa niente della disputa attuale fra negazionisti e confermazionisti.
“Cristallizzate tutte le partenze: non si scappa più da nessuna parte.”
Per quanto gli riguarda la gente può continuare a viaggiare da sola in auto indossando la mascherina o a bruciarle in strada come si fece con i libri che la cosa non gli riguarda. Sa troppo bene, Raffaele Castelli Cornacchia, che questo sfoggio autolesionisctico di applicazione democratica delle proprie idee non produrrà nulla di buono.
“Ma che gusti avrete mai, voi oggi / senz’alcuna prudenza d’intelletto / e senza memoria dei vostri atti / solo, quella voglia, di normalità. / Quella smania di cambiare le cose / di cercare di essere migliori / e di non rifare gli stessi sbagli.”
Tutto questo è il poi, è la conseguenza di qualcosa che è stato nei fatti e che la gente inizia presto a rivedere con occhi deformanti, sia per scarsa memoria sia perché il popolo si fa condizionare facilmente dalla costruzione e dalla manipolazione delle informazioni dei media, dei social e della politica. Questione di interessi più che di idee. Quello che è stato diventa un prodotto a uso e consumo di interessi terzi.
“Il caos era stato evitato / ci aspettava un’alba terrena / una vita tutta da inghiottire / però rimaneva una minaccia / un tubo rimosso troppo in fretta / qualcosa che sfuggiva all’udito / e non era tanto la pandemia / l’eventualità d’una ricaduta / quanto quel riprendere dall’inizio / come dopo la prigione dell’oca.”
Quello che è e che importa invece de La zona rossa è la testimonianza. La registrazione di fatti realmente accaduti senza morale, senza pudori, senza infingimenti e senza interessi personali. Oserei dire, per quanto possa sembrare paradossale parlando di poesia, con un’oggettività di racconto che non hanno dimostrato in quei giorni confusi e terribili la scienza e la politica.
“Prima d’allora avevo sempre detestato la routine / le rassicuranti liturgie della quotidianità / ma la lotta per la sopravvivenza richiede ordine / così in quei giorni presi ad avere abitudini.”
Sì, la poesia in quest’opera è una maniera di tenere in ordine ciò che è accaduto, che sta accadendo e che accadrà. Dal punto di vista personale dell’autore che nella faccenda c’è immerso fino al collo fin dall’inizio, così come tutti noi. Ancora una volta oggetto e soggetto. La giusta misura.
“Anche oggi, sull’orlo della notte / qualcuno si sveglia senza respiro / e si ripromette d’esser gentile / e riconoscente con il destino / per il poter ancora accarezzare / tracce lasciate o farne di nuove 7 ricomporre la trama di quei giorni / che han ceduto il passo ai corpi / intrecciati gli uni agli altri / nell’identico amplesso virtuale.”
Marzo e aprile, i mesi della solitudine nelle case scossa dal suono continuo delle ambulanze, sono stati la scenografia e il copione inconfutabili degli accadimenti. I giorni in cui lo stillicidio del terrorismo mediatico dei bollettini salvava dalla disperazione l’illusione gentile di una possibile e rinnovata solidarietà fra persone. La paura accomunava come una vittoria della nazionale di calcio ai mondiali. Lasciava ancora spazio a insperate speranze riguardo la possibilità di un disperato miglioramento della società che stava subendo e al contempo facilitando la vita al virus. Questo virus come altri. Questa società che non ha una malattia sola.
“Quindi non toccarmi. Non respirarmi. / Sono l’avvento del tuo sapere. / Sono il tuo intelletto scemo / la sepsi della connessione certa / il guasto nella tunica griffata / la contaminazione del prodotto / la corruzione nella rotazione / l’infezione ronzante d’un insetto.”
Alla quale il poeta si oppone con i mezzi propri della poesia. Della quale, a suo dire, oggi abbiamo più bisogno che mai ma non asservita esclusivamente al proprio Io individualistico e che non tema d’esser tacciata ed etichettata come poesia d’impegno civile. Cosa che, così come proposta in quest’opera, non è riproposizione anacronistica ma dovere intellettuale e umano.
“Allora se proprio devo vivere /lasciatemi vocali stalattiti / e le consonanti acuminate / rivoli verdi sui suoi seni / e il ventre, sì, un poco stracciato / e tutte le debolezze intatte / e le perle, della nostra apnea / fatta di polmoni indeboliti / e cieli sotto sforzo. Inquinati."
Un dovere intellettuale, come nelle opere precedenti dello stesso autore, duro e critico nei confronti della società.
“Niente più puttane tanti notai / e più farmacisti che operai / e cerberi a custodire cosa / e, quel bislacco senso del disuso / a muffire ironia, e sorte."
“E poi troveremo d’esser contenti / come dei contadini baraccati / intorno l’anfiteatro romano / perché questa è la nostra scienza. Qui. / Campare le rovine del passato.”
Duro e critico anche nei confronti della mera critica speculativa o all’adulazione poetica.
“Non sai dipingere con le parole. / Proponi sentimenti inutili / persi in alfabeti. Questo fai. / Ma tu non sai dipingere. Straparli. / Ti opponi alla corrente, remi / fendendo con l’acqua. / Essere e avere senza fare / verbi senza soggetto e tutti noi. / Gli occidenti fermi, senza ali."
La proposta stilistica allora è quella di una via fatta di forme e di contenuti linguistici che non sia innocua, che vada fino in fondo. Che colpisca duro. Come solo la poesia, voce incantata di ogni arte, può fare.
“Non è tempo del senso della fine. / Le radici che vogliamo mettere / son delle lunghe gambe da amare / un corpo sudato è corpo vivo / quindi s’accettano soltanto pugni / pugni di parole ben assestati.”
Una posizione critica e giocoforza anche provocatoria, quella di Raffaele Castelli Cornacchia, che si confina in un punto privilegiato equidistante da ogni estremismo non per allontanarsi dalla verità, bensì per contribuire a ritrovarne una parvenza. In quel divenire delle cose e dei fatti nei quali ognuno può essere artefice e protagonista. Con meno fiducia nello strapotere strafottente e dominante della scienza e della tecnologia tipicamente occidentali, e una maggiore ricerca laica di una comunione di idee, incentrata nel ricostruire relazioni fra pari meno determinate e minacciate dall’attuale illusione connettiva. Pensieri soggetti all’imprevedibilità dell’esistenza senza fede, certo, e che respingono ogni volontà di potenza - tecnica e intellettuale. Ogni abuso sia fisico sia metafisico. Nella convinzione che se per tutto può valere il concetto di un divenire eterno senza creatori iniziali, questo non vale per la nostra società in repentino declino. E in questa fase intermedia nella quale l’incretinimento delle masse lascia ancora spazi in cui agire, bisogna agire.
“Il confino è un senso unico / dall’esilio si torna diversi / e il rientro ha un altro nome: / qui, si fa come facevamo prima / a mettere un passo dietro l’altro.
Cercando di far prevalere al pessimismo l’ottimismo. Al catastrofismo l’attivismo. La vita alla morte.
“Per dio basta, basta bollettini / e dal fronte basta, il fronte sta qui / qui è la misura, la biopsia / di un’onda che non si puo’ sfuggire / alla quale per gioco resistere / come dighe di sassi al rivolo. // Che ritmo inutile la speranza/ la lusinga danzante della scienza: / omeostasi e metabolismo / evoluzione e riproduzione / la forza, in sostanza, che ci manca. / La parola VITA, in maiuscolo.
Quando in realtà prevale il realismo di chi conosce la vita.”
In una visione poetica e sentimentale nella quale sempre contano la rabbia ma anche l’amore. Forse, perché quei giorni resteranno sempre i giorni della solidarietà e della speranza. Perché gli amici e i nemici sono tutti sulla stessa barca.
“ … ma, ugualmente, conterà l’amore / o sarà soltanto quell’egoismo / quell’ipocrisia di amor proprio / che incede con potenti falcate / perché il dubbio, come una crepa / nel fraterno sentimento penetra / l’amore tutto d’un fiato, d’amare.”
La zona rossa
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