Le ballate di Narayama
- Autore: Fukazawa Shichiro
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2024
In un remoto villaggio montano giapponese, una donna di nome Orin ha quasi raggiunto l’età di settant’anni che impone a lei e ai suoi coetanei, nel rispetto di una antica tradizione sacra, di recarsi sul monte Nara e di lasciarsi morire fra quelle cime per non pesare più sulla propria famiglia. Alla fine Orin, dopo essersi spezzata i denti su un mortaio per sembrare più vecchia, salirà sul monte. Allontanato con un gesto della mano il figlio Tatsuhei che l’ha portata fin lassù, attenderà la fine pregando sotto la neve.
È questa, molto brevemente, la storia narrata nel film di Shohei Imamura La ballata di Narayama, premiato a Cannes con la Palma d’oro nel 1983.
Venticinque anni prima, un cantastorie aveva raccontato la medesima vicenda nel film di Keisuke Kinoshita La leggenda di Narayama, dove il primogenito della protagonista fatica a rassegnarsi al destino della madre, che comunque si compirà quando Orin, ascoltate dai saggi del villaggio le regole da osservare per l’ultimo viaggio, si farà accompagnare dal figlio sul monte Nara. Questo film “straziante e bellissimo, rarefatto e emozionante” nelle parole di Paolo Mereghetti si è ispirato, come quello più realistico di Shohei Imamura o quello semisconosciuto del regista sudcoreano Kim Ki-young, a un lungo racconto di Fukazawa Shichiro che uscì in Giappone nel 1956 e cinque anni dopo in Italia da Einaudi.
Lo ripropone adesso Adelphi con il titolo Le ballate di Narayama a cura dello iamatologo Giorgio Amitrano, riportando all’attenzione del lettore italiano un libro duro e affascinante che non trova paragoni adeguati nella narrativa nipponica del dopoguerra.
Fukazawa aveva quarantadue anni nel 1956, quando ottenne un premio per nuovi talenti letterari con questa sua opera che diventò presto famosa. Alcuni anni dopo incominciò a pubblicare a puntate, su una rivista prestigiosa, una novella satirica nella quale un povero operaio sogna tra i fumi dell’ubriachezza che il popolo invade il palazzo imperiale e fa rotolare per le scale la testa dell’allora principe ereditario Akihito, che ruzzolando fa un rumore di lattine vuote.
La satira non piacque ai fanatici nazionalisti. La casa dell’editore fu incendiata, la domestica uccisa, sua moglie ferita, e Fukazawa, sentendosi in pericolo e privo anche della solidarietà degli intellettuali, girerà il paese sotto falso nome sbarcando il lunario con lavori modesti e come menestrello, trovando infine rifugio in una fattoria di Tokyo. Non ricevette mai una vera riabilitazione ufficiale e tuttavia conservò fino all’ultimo, testimonia Pio d’Emilia, il gusto della satira pungente, un genere che in Giappone è stato ormai sostituito dalla più innocua comicità.
Il mondo in cui ci conduce Fukazawa è quello di una piccola e povera comunità giapponese in cui la protagonista vuole trovare una moglie per il figlio vedovo prima dei preparativi che precedono la salita del monte Nara: il banchetto, l’offerta del sake, il saluto dei parenti. Poi, il rituale rigoroso della salita che prevede fra l’altro il silenzio e il divieto di voltarsi indietro. Così vuole la pratica dell’Obasute, in conseguenza della quale un parente anziano o infermo veniva abbandonato in un luogo isolato perché non gravasse più sulla comunità.
Quale fosse lo stato di miseria che dettava simili regole è rappresentato nei toni asciutti di questa pagina:
Al villaggio non c’era azione più nefanda che rubare il cibo. Chi la commetteva era condannato alla pena più severa, indicata dalla frase “Chiedere perdono al dio di Narayama”. La pena consisteva nel fatto che tutto il cibo custodito nella casa del colpevole veniva confiscato e ridistribuito tra gli abitanti del villaggio. Le persone che se lo spartivano non riuscivano a prendere la loro parte se non accorrevano presto sul posto, tenendosi pronte a lottare. Era necessario arrivare il più presto possibile perchè se il ladro avesse tentato di opporre resistenza si sarebbe dovuto combattere. Poiché ci si doveva precipitare sul posto con la massima velocità, ed eventualmente combattere, era necessario essere a piedi nudi. Chi aveva i piedi calzati rischiava a sua volta di essere picchiato severamente. Si correva alla disperata perché nei nervi di ognuno era incisa la gravità del fatto di essere privati del cibo.
Anche se secondo lo studioso Kunio Yanagita la pratica dell’Obasute non è mai esistita storicamente, essendo frutto di una leggenda buddista indiana, i suoi riflessi sono stati accolti nella letteratura, nel teatro No, nei cartoni animati, nella musica leggera e persino nel musical, e in alcune versioni è stata interpretata a volte come una metafora del modo in cui il Giappone contemporaneo tratta gli anziani.
Del resto, nelle attuali società efficientiste l’abbandono dei vecchi nella solitudine o in un ospizio è un avatar mascherato, ma non per questo meno cinico, dell’antico Obasute che almeno aveva il pretesto, ammesso che sia mai esistito, di combattere la minaccia che la miseria recava alla sopravvivenza.
In Fukazawa, la lotta per la sopravvivenza che si svolge nel villaggio, la visione del mondo spietata dei suoi abitanti, il tempo immobilizzato tra leggi ancestrali, antiche canzoni e leggende, il viaggio verso la morte hanno, agli occhi del lettore occidentale, un colore gelido, mentre all’interno della narrazione prendono quasi il carattere di una necessità che trascende i giudizi morali e i comuni sentimenti, anche se non mancano episodi di pietas filiale:
Tatsuhei a voce alta le disse: “Mamma, hai visto, è caduta la neve”.
Orin tranquillamente tirò fuori la mano e la agitò in direzione di Tatsuhei, come per dire: “Vai adesso,vai”.
“Mamma, avrai freddo”.
Orin scosse la testa di lato molte volte. In quel momento Tatushei si accorse che lì intorno non c’era nemmeno un corvo. Pensò che forse, essendosi messo a nevicare, tutti i corvi erano volati in direzione del villaggio, oppure si erano rinchiusi nei loro nidi. Era una fortuna che fosse caduta la neve. Anche perché probabilmente faceva meno freddo circondati dalla neve che esposti al soffio dei venti gelidi della montagna. “Forse la mamma si addormenterà così”, pensò.
Per quanto incomprensibile e scellerato possa apparire a noi occidentali contemporanei Tatsuhei che scorta la madre verso la fine, egli è soltanto un esecutore della tradizione che ha un’unica legge – vivere, o almeno sopravvivere – alla quale già si sono piegati i suoi antenati e alla quale si piegheranno i suoi discendenti.
La morte di chi è al tramonto è il sacrificio che la vita esige. Di fronte a tanta radicalità poco importa, sotto l’aspetto letterario, se sia vero o no che l’autore ha voluto esaltare lo spirito di sacrificio per il bene comune di una civiltà spezzata dalla seconda guerra mondiale. Crediamo che la voce più autentica e potente del libro non venga dal piano sociologico, ma da qualcosa di più recondito e antico che parla a tutti, anche se aspramente, in virtù del suo pathos.
O forse è più giusto dire che nel racconto convivono possibilità diverse di lettura, ed è già un miracolo che una tale polifonia sia possibile in un testo di settanta pagine.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le ballate di Narayama
Lascia il tuo commento