Lo sport è una cosa seria
- Autore: Matteo Bursi
- Genere: Sport
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Lo sport unisce. Il ping pong avvicinò Cina e USA nei primi anni ’70. L’Argentina di Maradona affrontò l’Inghilterra ai mondiali di calcio in Messico, quattro anni dopo la guerra delle Falklands tra i due Stati. Le donne sole hanno avuto libero accesso nello stadio di Gedda, nella Supercoppa italiana di calcio, a gennaio. Attenzione, però, nell’era della globalizzazione, se non viene adeguatamente controllato, lo sport può anche generare disvalori e diffondere negatività.
È l’allarme lanciato dal giornalista milanese Matteo Bursi in un volume pubblicato a fine 2018 dall’Editoriale Sometti di Mantova, “Lo sport è una cosa seria” (224 pagine 16 euro), “derive e riscatti, tentazioni e inganni, traumi e ripartenze dentro e fuori del campo”.
L’autore lavora a Telemantova e collabora con la Gazzetta dello Sport. In termini di cultura ed educazione sportiva è un purista, un pedagogo. Possiede virtù rare nel mondo del giornalismo sportivo, soprattutto calcistico, nel quale l’obiettività è un miraggio: la sua trasmissione “Calcio Mania” ha meritato una menzione in occasione del Premio Fair play calcio e TV, indetto dal Comitato regionale per le comunicazioni.
Proprio il calcio è il soggetto malato sul quale ci concentrano le attenzioni - meglio, le apprensioni - di Bursi. Poco è in grado di unire quanto il “pallone”, ma niente è altrettanto rapido nel dividere. Non si pensi solo alle rivalità tra le tifoserie (anche se l’agguato di Santo Stefano ai supporters napoletani a Milano è un serio campanello d’allarme). Lontano dalle metropoli calcistiche, in assenza di controlli, lo scenario è di progressivo degrado, tanto nell’hinterland delle città del nord che nei prati delle serie inferiori. Oggi, arbitrare in qualche campo perfino di serie C in Campania è come affrontare le belve a mani giunte: un vero martirio per i giovani arbitri seri, un “chi se ne frega” per quelli non vedo-non sento-non parlo.
Il calcio non ha mai generato una cultura, tanto tra le stelle miliardarie che nei campetti. Non c’è accettazione della sconfitta, manca il minimo riconoscimento dell’altro. Rispetto zero, poi, nei confronti degli arbitri, vengono picchiati dai giocatori o anche dai genitori delle giovanili. S’è per questo, in Puglia sono arrivati perfino a schiaffeggiare un calciatore per non aver passato la palla al figlio, in una certa occasione. Era una partita di ragazzini di dieci anni. È intervenuta la polizia, tutti al Commissariato.
E i media che fanno? Hanno acceso anche loro i fari sulle serie minori, perché nomi e immagini dei figli fanno audience. Ma l’attenzione è stranamente cieca, non vede gli aspetti negativi che pure vengono registrati. Li tagliano, come se nulla fosse accaduto.
Fuori del recinto del calcio è più facile che lo sport risulti davvero una cosa seria. Matteo porta l’esempio di atleti e discipline che nel ‘900 hanno scritto pagine di crescita, di libertà, di emancipazione.
Cassius Clay è stato un paladino del pacifismo, col suo rifiuto di rispondere all’arruolamento per il Vietnam e il No alla guerra. Venne condannato, penalizzato, squalificato, ma tenne duro. Come dimenticare i pugni chiusi guantati di nero, per protesta contro le discriminazioni razziali, dei velocisti americani di colore Tommy Smith e John Carlos, sul podio dei 200 piani a Città del Messico, Olimpiadi 1968. Chi ha visto le immagini in bianconero le porterà sempre con sé.
Nelson Mandela cancellò l’apartheid e cambiò la storia col mondiale di rugby del 1995 ospitato e vinto dal Sudafrica contro la Nuova Zelanda dell’Haka. Sempre le Olimpiadi, a Monaco di Baviera, nel 1972, vissero una tragedia col sequestro e la strage di undici atleti israeliani ad opera di terroristi palestinesi. Un eccidio sistematicamente vendicato negli anni successivi dei servizi segreti di Tel Aviv.
Lo sport può essere riscatto, per questo Matteo Bursi ha intrapreso un percorso che da Milano raggiunge le periferie. Se il 10% dei cittadini del mondo vive nei centri storici delle grandi città, vuol dire che nove esseri umani su dieci vivono fuori, nelle banlieu, ai margini. Da questo itinerario, si scopre innanzitutto che la domenica mattina nei prati di Parco Lambro a Milano, popolati dai gazebo delle colonie di latinos che offrono i loro prodotti, basta far rotolare un pallone perché bambini di ogni razza e colore si mettano a giocare insieme, senza le distinzioni alle quali sembrano tanto attenti invece i loro genitori e parenti: “noi” di qua “loro” di là, sembrano pensare i rari passanti italiani, a debita distanza, lumbard purissimi o anche figli di meridionali immigrati sessant’anni fa.
Sempre meglio del “noi” e “loro” del conflitto etnico in Bosnia, a metà anni ’90, quando piovvero bombe e missili sul campetto di football della scuola di Srebrenica: 62 morti, tanti bambini.
Sport vero è Nicoletta Stefanova, tornata ogni volta dopo tre maternità a battere avversarie nel tennistavolo. Sport con il cuore è quello di Elena Leoni, pattinatrice artistica di livello mondiale che si dedica al servizio dei piccoli disabili. Sport che va oltre i limiti è quello dei tanti campioni paralimpici due volte più determinati nel raggiungere i loro traguardi.
Ma c’è anche sport senza cuore, quello dei miliziani dell’Isis che irruppero nel campo profughi di Yarmouk, in Siria e si misero a calciare le teste di bambini decapitati davanti ai loro genitori. Teste mozzate al posto del pallone: se questi sono uomini.
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