Ode al Vento Occidentale (nell’originale Ode to the West Wind, Ndr) è una delle liriche più celebri del poeta romantico inglese Percy Bysshe Shelley.
Fu scritta nel 1819, mentre l’autore si trovava a Firenze con la moglie Mary, e pubblicata nel 1820.
Shelley dichiarò in seguito di essere stato ispirato “da un giorno ventoso, di vento agitato” in cui si preparavano le prime piogge autunnali.
Il prodigio compiuto dall’autore, in questa poesia, è dato proprio dalla capacità di farci percepire l’autunno come un presagio: lo sentiamo arrivare, incombe, avanza, strofa dopo strofa, è un soffio che ritorna. Il suono del vento è come un leitmotiv nell’opera di Wagner, un “motivo di rimembranza”.
L’ode di Percy Bysshe Shelley è immortale perché conserva qualcosa di sempiterno, una ripetizione fatale e al contempo struggente: lo sentiamo arrivare il vento dell’ovest che porta via l’estate e accompagna la terra verso un lungo letargo. Il cambio delle stagioni si ripete di anno in anno, immutato, eppure la malinconia dell’autunno rimane intatta e Shelley in Ode al Vento Occidentale ce la restituisce in tutta la sua intensità. Come un quadro di Bruegel, dal titolo La mietitura (1565) che ci mostra i contadini mentre falciano il grano in una giornata di fine agosto: i personaggi si confondono con il giallo, il colore predominante, che dà alla scena un tocco malinconico, autunnale. Nel dipinto di Bruegel troviamo un’estate che parla già di autunno, sembra di sentir soffiare al suo interno il vento dell’ovest cantato da Shelley.
Il vento, nella poesia di Percy Shelley, viene definito breath of Autumn’s being, un alito d’autunno. La presenza del vento viene personificata, acquisisce la forza di una potenza vitale, l’autore gli si rivolge nel finale di ogni strofa chiedendo con impeto crescente: “Ascolta!”, ma nella conclusione muta il suo imperioso ordine in un fraterno: Accompagna!
Il vento è come una divinità, dalla forza pervasiva e possente, alla cui volontà si piegano tutte le cose della natura. All’uomo, per placarne l’impeto distruttivo, non rimane che la preghiera; per questo il poeta lo chiama, lo invoca e, nel finale, si confessa a lui, lo rende complice e partecipe della sua volontà.
“Ode al Vento Occidentale” di Percy Shelley: testo
I
Oh selvaggio Vento dell’Ovest, respiro dell’essenza dell’autunno,
Tu, dalla cui invisibile presenza sono trascinate
Le foglie morte, come fantasmi in fuga da uno stregone,
Gialle e nere e pallide e rosse di febbre,
Moltitudini colpite dall’epidemia: oh tu,
Che porti sulla tua carrozza i semi alati.Verso i loro scuri letti invernali, dove giacciono nel freddo
E nel profondo, ciascuno come una salma nella tomba,
Finché la tua azzurra sorella, Primavera, suonerà
La sua tromba sopra la terra addormentata, e riempirà
(Portando dolci boccioli come greggi da nutrire nell’aria)
Di vivaci odori e sfumature pianure e colli:Spirito selvaggio, che ovunque ti muovi;
Distruttore e protettore, ascolta, ascolta!
Shelley invoca il vento come un mago che sta per compiere il suo sortilegio. Il vento di autunno ci appare cupo, come uno stregone che si manifesta dopo un maleficio. L’essenza dell’autunno è un presagio di morte, come ci rivela lo strascico di foglie morte che il vento porta con sé. Abbiamo anche la personificazione delle foglie, che Shelley descrive come le vittime di un’epidemia di peste.
Ma il vento d’autunno non è solo una manifestazione di morte, è anche un simbolo di rinascita: porta infatti via con sé i semi che porteranno nuovi germogli in primavera. Ogni stagione è necessaria, sembra dirci Shelley, mentre nella seconda strofa si apre alla promessa della primavera che porterà nuovi boccioli e colori sulla terra.
Il vento viene personificato in un spirito, definito tramite due aggettivi in apparenza contrastanti, “distruttore e protettore”, in una sorta di binomio tra vita e morte, eros e thanatos. La morte è necessaria alla vita, questo ci dice l’eterno ritorno delle stagioni.
II
Tu nella cui corrente si disperdono
le nuvole vaganti, come foglie
marcite della terra, nel subbuglio
del cielo ripido, dagli intricati
rami del cielo e dell’oceano scosse,
angeli della pioggia e della folgore:
cosparse sull’azzurra superficie
dei tuoi marosi eterei, come fulgida
chioma che sollevata sopra il capo
d’una Menade fiera, dal confine
tenue dell’orizzonte va ad attingere
lo zenit, come i riccioli del prossimo
diluvio. O pianto funebre dell’anno
morente, a cui la notte che finisce
sarà la volta d’un sepolcro immenso,
cupola in cui si aggrega la potenza
e l’atmosfera densa dei vapori,
da cui una pioggia nera esploderà
insieme a fuoco e grandine: oh, ascolta!
L’abbandono della terra si riflette nel cielo, le cui nuvole appaiono come tante foglie morte. Nella seconda strofa il vento assume una forma mitologica, espressa attraverso una similitudine: la sua furia viene paragonata alla chioma scomposta di una Menade, come venivano chiamate le donne dedite al culto orgiastico di Dioniso, il Dio dell’ebrezza, si tratta di una baccante (il riferimento al mondo classico è una caratteristica dell’ode che si struttura proprio sulla metrica greca di Pindaro, Ndr).
L’energia che il vento raccoglie nel cielo, come elettricità che prelude a un imminente temporale, si fa presagio di una morte vicina: la cupola del cielo viene paragonata a un sepolcro immenso. Perché l’autunno porterà la morte nel mondo che poi, lentamente, tornerà alla vita.
Il finale della strofa descrive l’avvento di una sorta di apocalisse biblica: fuoco e grandine (immagine che, a ben vedere, riflette i contemporanei cambiamenti climatici) e l’avvento di una pioggia nera, dunque nefasta. La preghiera del poeta a questo punto si fa più implorante, intensa, necessaria: “ascolta!”
III
Tu che l’azzurro mar Mediterraneo
dai sogni estivi risvegliasti, mentre
cullato dalle onde cristalline
egli giaceva, accanto a un isolotto
di pomice nel golfo presso Baia,
e nel sonno palazzi antichi e torri
tremolanti guardava nella luce
del giorno che era ancora più splendente
dell’onda, ricoperti dagli azzurri
muschi e da fiori così dolci che
nel descriverli i sensi vengon meno!
Tu, per i cui sentieri si dividono
in abissi le eroiche superfici
dell’Atlantico, mentre nel profondo
fiori marini e boschi limacciosi,
che vestono le foglie senza vita
dell’oceano, conoscon la tua voce,
e d’un tratto son grigi di paura,
e tremano e si spogliano: oh, ascolta!
La poesia di Shelley sembra imitare - e seguire - il movimento scomposto del vento che vaga tra cielo e terra, senza posa. Dopo la terra, ci porta nell’alto del cielo, tra le nuvole, e quindi nel mare “il Mediterraneo azzurro” che si spalanca con le sue onde cristalline. Il mare, dice il poeta, conserva il ricordo felice dei giorni estivi che il vento dell’Ovest porterà via per sempre. Il Mediterraneo, così come l’Oceano Atlantico, impallidiscono e diventano grigi dinnanzi al ritorno del vento che sembra spogliare persino gli abissi e rapire l’azzurro del mondo marino. Notevole l’abilità di Shelley nel trasformare il mare in un riflesso capovolto del mondo terrestre: anche gli abissi diventano selve, i coralli si riflettono nelle foglie morte. Un tema che ritorna come un leitmotiv quello delle foglie morte e infine si fa oggetto della metafora principale che sostiene l’intera ode.
IV
Foss’io una foglia morta che condurre
tu potessi; o una nuvola veloce
per volare con te; un’onda che sbuffa
sotto la tua potenza, a condividere
l’urto della tua forza, solamente
men libero di te, o inarrestabile!
Potessi almeno, come da bambino,
esser compagno al tuo vagabondaggio
nel cielo, come allora, quando il passo
tuo rapido e celeste superare
non era solamente una chimera;
mai io nel mio bisogno doloroso
a te sarei venuto in questa prece.
Levami come un’onda, come nuvola,
come una foglia! Cado sulle spine
di questa vita e sanguino. Il pesante
fardello delle ore mi ha asservito
e soggiogato: io a te troppo simile,
impavido, e veloce, ed orgoglioso.
Nella IV strofa il poeta fa il suo ingresso in prima persona nella poesia, facendo un’appassionata invocazione. Ci viene svelato il motivo principale della lirica attraverso una metafora: il poeta sente di avere l’autunno dentro di sé, di vivere in un eterno autunno, come una foglia morta. Il motivo ricorrente delle foglie morte, tante volte ripetuto, non era casuale: in quell’immagine Shelley vede un riflesso dell’esistenza che ormai ha perso il suo significato, è diventata inerte, priva di senso. Per questo motivo il poeta chiede al vento di essere trasportato verso le altezze celesti. Lui, del resto, quelle elevazioni le ha già conosciute attraverso l’ispirazione poetica e ora non è più in grado di accettare la mediocrità, gli inganni, il fardello della vita terrestre, ordinaria. Capiamo che Shelley condivide con il vento dell’ovest la stessa inquietudine, che infine giunge a paragonare quel vento alla voce della poesia che scompagina e scombina la realtà.
V
Fai di me la tua cetra, come già
tu fai della foresta: cosa importa
se come le sue foglie anche le mie
cadono, se il tumulto delle tue
poderose armonie solleverà
da entrambi un canto grave ed autunnale,
dolce seppure triste. Che tu sia
il mio spirito, o spirito orgoglioso!
Accompagna attraverso l’universo
i miei pensieri morti come foglie
appassite, affinché una nuova nascita
possano avere! E per l’incantamento
di questi versi, spargi in mezzo agli uomini
le mie parole, come le faville
insieme con le ceneri, da un cuore
che ancora non è spento. Ed attraverso
le mie labbra sii tu per la dormiente
terra la tromba d’una profezia!
O vento, se l’inverno sta arrivando,
potrà la primavera esser lontana?(traduzione di Luca Alvino)
L’invocazione finale ricorda l’epica classica: “Fai di me la tua cetra”, afferma Percy Bysshe Shelley, come un novello Omero. Capiamo che il vento dell’ovest è diventato la sua musa, a lui il poeta chiede di essere trasportato, gli domanda ispirazione. Tutti i verbi in questa strofa sono declinati all’imperativo, rispondono a un ordine preciso, ma l’imperioso “ascolta!” sfuma in un più fraterno “accompagna!”, come se Shelley accettasse la presenza del vento al suo fianco. Non lo percepisce più come un pericolo o una divinità superiore, ma come un alleato, cui domanda di perpetuare la propria voce poetica. Nel finale il vento si fa portatore di una solenne profezia: il ritorno, certo, della primavera. La stessa primavera che si augura di portare nel mondo Percy Bysshe Shelley attraverso i suoi versi poetici, un canto di rinascita e non di morte.
Le parole sono come scintille vive tra le ceneri spente, dunque portano vita, ricordano che il cuore batte, forte e vitale, nonostante i pensieri cupi. Shelley si appella al vento con una domanda sospesa, che però appare come una promessa: “Potrà la primavera esser lontana?”.
Il vento occidentale viene annunciato come uno stregone, ma nel finale comprendiamo che la sua funzione non è malvagia, poiché la sua funzione è parte di quell’incantesimo invisibile, quel ciclo eterno di nascita e morte, che governa il mondo dall’inizio dei secoli. Percy Bysshe Shelley aveva intuito che la Natura è una forza indomabile, sublime, ma decide di non contrastarla, di arrendersi a lei, come a un mistero più grande, incomprensibile e tuttavia assoluto. Ogni stagione si lega all’altra in una catena inesorabile che in fondo non è altro che un’infinita profezia di vita.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Ode al Vento Occidentale” di Percy Shelley: una poesia d’autunno
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Poesia Storia della letteratura Percy Bysshe Shelley
Lascia il tuo commento