Il 2 luglio a Siena segna la ricorrenza del Palio, la famosa festa senese di origine seicentesca che coinvolge le principali contrade della città. Negli anni è stata decantata ed evocata da grandi scrittori italiani, che hanno narrato con identica meraviglia la folla radunata a Piazza del Campo in attesa di assistere all’inizio della giostra. Il mito letterario di Siena trae origine proprio dal suo Palio, evocato tra gli altri dal poeta Eugenio Montale nella poesia omonima, contenuta nella raccolta “Le occasioni” (1939).
Il Palio di Siena narrato da Montale
Il Palio cantato da Montale si discosta dall’atmosfera festosa narrata, tra gli altri, da Vittorio Alfieri e Aldo Palazzeschi, poiché è attraversato da un presagio: la Seconda guerra mondiale ormai imminente. Esattamente sei anni dopo, il 3 luglio del 1944, in quella stessa piazza Siena avrebbe celebrato la Liberazione della città: alle sei di mattina di quella giornata i senesi, trionfanti, avrebbero accolto sventolando le bandiere delle contrade le truppe francesi entrate a Porta San Marco, mentre i tedeschi invasori fuggivano in ritirata.
Quando Montale scrisse la sua lirica quel giorno gioioso era quanto mai lontano, all’orizzonte si addensavano invece spesse nubi spettrali: la bufera imminente, la tragedia della guerra, avrebbe portato cinquantacinque milioni di morti. Il poeta sembrava cogliere quell’angosciosa verità, pur nell’atmosfera di festa del 1938.
Per comprendere appieno il tormento che attraversa la poesia di Montale, dobbiamo ricorrere alla biografia dell’autore: nel luglio del 1938 il poeta aveva appena rassegnato le dimissioni dalla direzione del Gabinetto Viesseux, dopo essersi rifiutato di iscriversi al Partito Fascista. Il mancato tesseramento di Montale aveva avuto ripercussioni serie sulla sua carriera e lui, meglio di tutti, aveva intuito il dramma ormai imminente, la dittatura non ancora dichiarata, l’alleanza strisciante del nazi-fascismo. Il luglio del 1938 segnava per Montale la fine dell’idillio degli anni fiorentini: accanto a lui quel giorno, sugli spalti del Palio a Piazza del Campo, c’era Irma Brandeis, la studiosa americana di filologia dantesca che era divenuta la nuova musa della sua poesia con il nome senhal di Clizia. È sempre lei la donna descritta nella poesia, il “tu” poetico che appare in maniera prepotente nella raccolta Le occasioni, trasformando il “male di vivere” montaliano degli Ossi di seppia in una poesia d’amore a due voci fuse in un’unica soggettività.
Clizia/Irma è la donna salvifica, novella Beatrice, colei che rappresenta lo spiraglio, il “varco” tanto agognato della poetica montaliana, il conforto al dolore insito nell’esistenza: eppure anche lei è destinata a soccombere, presto Clizia, in quanto ebrea americana, dovrà partire, tornare in America, dove troverà rifugio dalle leggi razziali promulgate proprio in quegli anni. Questo presagio si addensa cupo già nei pensieri di Clizia in quel giorno solare d’estate, quando Montale la descrive come assente, estraniata dalla festa circostante:
Il lancio dei vessilli non ti muta
nel volto; troppa vampa ha consumati
gl’indizi che scorgesti
La donna e il poeta condividono la stessa emozione, l’identica angoscia. Sanno che ormai il loro tempo insieme è breve, quasi trascorso, si consuma di minuto in minuto come una fiamma.
Per comprendere appieno il testo montaliano, che a tratti pare oscuro, non possiamo prescindere da questa premessa. Il Palio cantato da Montale è immerso nel contesto che precede lo sterminio di milioni di persone, nella giostra dei cavalli sembra scorgersi un anticipo del sangue e della violenza che presto imbratteranno il mondo intero. Persino le urla gioiose degli spettatori paiono anticipare le grida angosciate di chi non sa porre rimedio alla morte “la morte non ha altra voce di quella che spande la vita”.
Vediamone testo, analisi e commento.
“Palio” di Eugenio Montale: testo
La tua fuga non s’è dunque perduta
in un giro di trottola
al margine della strada:
la corsa che dirada
le sue spire fin qui,
nella purpurea buca
dove un tumulto d’anime saluta
le insegne di Liocorno e di Tartuca.
Il lancio dei vessilli non ti muta
nel volto; troppa vampa ha consumati
gl’indizi che scorgesti; ultimi annunzi
quest’odore di ragia e di tempesta
imminente e quel tiepido stillare
delle nubi strappate,
tardo saluto in gloria di una sorte
che sfugge anche al destino. Dalla torre
cade un suono di bronzo: la sfilata
prosegue fra tamburi che ribattono
a gloria di contrade.
È strano: tu
che guardi la sommossa vastità,
i mattoni incupiti, la malcerta
mongolfiera di carta che si spicca
dai fantasmi animati sul quadrante
dell’immenso orologio, l’arpeggiante
volteggio degli sciami e lo stupore
che invade la conchiglia
del Campo, tu ritieni
tra le dita il sigillo imperioso
ch’io credevo smarrito
e la luce di prima si diffonde
sulle teste e le sbianca dei suoi gigliTorna un’eco di là: ‘c’era una volta...’
(rammenta la preghiera che dal buio
ti giunse una mattina)
«non un reame, ma l’esile
traccia di filigrana
che senza lasciarvi segno
i nostri passi sfioravano.
Sotto la volta diaccia
grava ora un sonno di sasso,
la voce dalla cantina
nessuno ascolta, o sei te.
La sbarra in croce non scande
la luce per chi s’è smarrito,
la morte non ha altra voce
di quella che spande la vita».ma un’altra voce qui fuga l’orrore
del prigione e per lei quel ritornello
non vale il ghirigoro d’aste avvolte
(Oca o Giraffa) che s’incrociano alte
e ricadono in fiamme. Geme il palco
al passaggio dei brocchi salutati
da un urlo solo. È un volo! E tu dimentica!
Dimentica la morte
toto coelo raggiunta e l’ergotante
balbuzie dei dannati! C’era il giorno
dei viventi, lo vedi, e pare immobile
nell’acqua del rubino che si popola
di immagini. Il presente s’allontana
ed il traguardo è là: fuor della selva
dei gonfaloni, su lo scampanío
del cielo irrefrenato, oltre lo sguardo
dell’uomo - e tu lo fissi. Cosí, alzati,
finché spunti la trottola il suo perno
ma il solco resti inciso. Poi, nientr’altro.
“Palio” di Eugenio Montale: analisi e commento
Il Palio di Siena, nella sua iconografia, rappresenta una guerra simbolica che però Montale in questi versi tramuta in una guerra vera. Lo spettacolo cui stanno assistendo, lui e Irma, avvera il presagio che già nutre i loro pensieri: ciò che vedono è l’avverarsi di una premonizione drammatica. Non stanno guardando il presente, ma il futuro di guerra ormai prossimo, come ci suggeriscono gli ultimi versi della lirica:
“Il presente s’allontana ed il traguardo è là”.
Nella conclusione Montale include proprio un riferimento metaforico al presagio, ciò che risiede “oltre lo sguardo dell’uomo”: è ciò che sta guardando Clizia - nella soggettività della donna, il poeta sdoppia sé stesso - la ragione del suo estraniamento dall’atmosfera di festa.
La lirica di Montale può essere suddivisa in due sezioni opposte: la prima parte è descrittiva, narra l’architettura senese, il colore incupito dei mattoni, le insegne e i vessilli, il rullo dei tamburi, serve a calarci nell’attimo presente, in quel giorno di luglio; ma presto a quell’atmosfera festosa si frappone un presagio, già racchiuso negli occhi della donna che sembrano scrutare un altrove. Passato, presente e futuro si sovrappongono nella lirica in una sorta di sinfonia tripartita: nella sezione centrale Montale introduce un fiabesco “c’era una volta” che sembra alludere ai fasti trionfali del palio. Ma è il presagio a vincere sul presente: solo attraverso questa chiave di lettura possiamo comprendere il senso della poesia, il fatto che una visione festosa in una giornata estiva si tramuti improvvisamente in una bolgia infernale. Ritroviamo un pronostico non molto differente da quello narrato ne il Carnevale di Gerti, un’altra poesia della raccolta Le occasioni composta nel 1932, in cui viene descritto un rito propiziatorio compiuto per il nuovo anno: un cucchiaio di piombo fuso gettato nell’acqua fredda. Anche in questi versi ritroviamo l’immagine acquorea, cara al poeta ligure, calato nel paesaggio marino, già nelle poesie di Ossi di seppia (pensiamo a Falsetto):
nell’acqua del rubino che si popola
di immagini.
L’acqua, ancora una volta, si fa specchio e presagio del futuro e, in particolare, della guerra. Il poeta invita Clizia a dimenticare, “dimentica la morte e la balbuzia dei dannati”, a non pensare alla morte, ma è un ammonimento vano poiché ogni immagine già rimanda a un infausto destino (gli indizi ormai ci sono tutti “l’odore di ragia e di tempesta”, il “tiepido strillare”, le “nubi strappate”). Come in ogni poesia delle Occasioni è anche presente un oggetto salvifico, stretto non a caso tra le mani della donna:
tu ritieni
tra le dita il sigillo imperioso
ch’io credevo smarrito
Il “sigillo imperioso” di Clizia ricorda l’amuleto di Dora Markus, altra celebre poesia della raccolta Le occasioni, ciò che la salva - anche lei ebrea perseguitata - dallo spettro dell’annullamento, della morte, dell’inesistenza. La poetica dell’oggetto, ripresa dal poeta inglese T.S. Eliot, è uno dei tratti fondamentali della lirica montaliana: viene ripresa anche in Palio dove il sigillo si fa simbolo concreto di una speranza che l’autore stesso credeva ormai smarrita. Il sigillo testimonia anche la vicinanza di Clizia, che non è ancora lontana, ma presente e vicina, è lei che rappresenta il vero traguardo per il poeta, l’ancora di salvezza nella burrasca che s’annuncia.
Nel finale il Palio viene descritto da Montale come un “giro di trottola”, diventa metafora della vita con il suo ripetersi ciclico. Il solco della trottola che resta inciso nel terreno è il simbolo di una traccia morale, ciò che resta nonostante lo sbandamento, il disequilibrio, l’apparente trionfo del caos.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Palio” di Eugenio Montale: la poesia dedicata alla festa di Siena
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