Alcune parole sgattaiolano dalla nostra lingua senza una ragione, esattamente come si sono intrufolate. Accade a quelle modaiole. Ma quando a finire nel vocabolario delle parole dimenticate è un termine fondativo, significa che la bussola etica della comunità ha cambiato rotta. Prendiamo “pudore” per esempio, che sottende un concetto in via d’estinzione.
Riscopriamolo leggendo la lirica omonima Pudore di Antonia Pozzi composta il 1° febbraio 1933, tratta dall’unica raccolta “Parole” pubblicata postuma nel 1939. Una decina di anni dopo Eugenio Montale la farà conoscere alla critica, a testimonianza di un sensibilità poetica inquieta, introspettiva e un po’ infantile al tempo stesso.
La bellezza del componimento consiste in un originale confronto: l’amore di un legame sentimentale ancora incerto e non verbalizzato per pudore viene paragonato a un giovane amore materno, ugualmente insicuro e riservato. È un sentimento a due facce – sempre tenero e puro - quello che ci presenta la Pozzi: da un lato un’innamorata cerca la conferma di essere corrisposta; dall’altro si comporta come una giovane mamma che arrossisce, malgrado l’orgoglio, al complimento per il suo bimbo. Le accomuna l’insicurezza, l’inesperienza e la ritrosia di donna e madre. C’è anche un pizzico di modestia, un altro concetto latitante da tempo.
Ecco testo, parafrasi e analisi della poesia.
Pudore: testo della poesia di Antonia Pozzi
Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.1° febbraio 1933
Metrica
Pudore è una lirica monostrofica formata da un solo periodo sintattico e undici versi di varia lunghezza.
Parafrasi e analisi della poesia
vv.1-6
Se tu mi dici che le mie parole dappoco ti piacciono, anche solo con lo sguardo, manifesto la mia felicità aprendomi al sorriso.
È il centro di gravità della sua vita affettiva l’interlocutore, cui la poetessa si rivolge in prima persona. Malgrado la vocazione autobiografica della raccolta, preferisco classificare con un sostantivo asettico l’oggetto del suo amore. Per rispetto a questa ragazza schiva, riservata e – non dimentichiamolo – educata, un altro termine in disuso che fa il paio con pudore. Gli si rivolge per avere conferma di essere ricambiata, cercando sicurezza nell’approvazione altrui. Ma lo fa in modo indiretto scegliendo il sentiero delle persone timide, insicure e schive: quello dell’ipotesi che in realtà nasconde un desiderio.
Fermiamoci a riflettere sui versi parafrasati anche se non sono chiusi dal punto. Infatti i segni interpuntivi sono assenti. Viene in mente Ungaretti anche per la cifra diaristica.
La lirica ha un taglio sartoriale sul piano strutturale, contenutistico, emotivo. Vediamo perché:
- la struttura ad anello o circolare - per il se della subordinata condizionale ai vv. 1 e 10 -, fa capo all’incertezza di una ragazza che si schiude pudica all’amore. Il verso incipitario introduce un periodo ipotetico della realtà, che dimostra la dipendenza emotiva della poetessa dall’altro. Non basta forse l’approvazione dell’interlocutore a renderla felice? Non dimentichiamo però che l’intesa sentimentale sta sbocciando e si alimenta con la voce dello sguardo e le parole del silenzio;
- la poetessa mostra gioia infantile e fiducioso abbandono nella risata piena;
- analizziamo “povere parole”: fatta salva l’inversione sintattica che enfatizza l’aggettivo, perché “povere”? Propongo due ipotesi convergenti. Non si tratta della falsa modestia alla Catullo che chiama nugae, cioè inezie, i suoi carmi tanto per restare nell’ambito poetico. Quella di Antonia Pozzi è un’insicurezza autentica. Però l’aggettivo potrebbe essere sinonimo di essenziale.
vv.7-11
Ma nello stesso tempo sono in imbarazzo come una giovane mamma quando un passante fa un complimento al suo bel bambino.
Questi versi ruotano intorno al campo semantico della maternità, forse un’esperienza di vita che la poetessa ha desiderato senza potervi accedere. Sono numerose le poesie che manifestano questo desiderio destinato a rimanere inappagato.
La congiunzione avversativa “ma” mette pure in rilievo la complessità dell’amore.
Pudore: il significato della poesia nella vita di Antonia Pozzi
Antonia Pozzi è stata una personalità curiosa, ricca e tormentata. Nasce a Milano il 13 febbraio 1912 in una famiglia dell’alta borghesia: un avvocato affermato il padre Roberto, di nobile famiglia la madre Carolina Cavagna Sangiuliani dei conti di Gualdana. Al liceo “Alessandro Manzoni” si innamora corrisposta del suo insegnante di latino e greco, il classicista Antonio Maria Cervi di 18 anni più grande, fermamente avversata dalla famiglia. Prosegue gli studi universitari, pratica viaggi, attività sportiva, coltiva l’interesse per la fotografia. Nel 1935 si laurea con una tesi sulla formazione letteraria di Gustave Flaubert. Solo nel 1930 l’amicizia con il docente, trasferitosi nel frattempo nella capitale, si trasforma in un legame serio, destinato a naufragare tre anni dopo per la ferrea opposizione dei genitori.
A seguire due frequentazioni amicali con Remo Cantoni e Dino Formaggio non sfociano in qualcosa di più, come la poetessa avrebbe desiderato. I due sarebbero diventati filosofi di spicco.
Il condizionale è d’obbligo poiché, testimonianze degli amici a parte, i “Diari” e “L’epistolario” sono l’unica fonte per ricostruire la sua biografia. Purtroppo il padre li alterò con tagli e censure per proteggere la rispettabilità della figlia dopo la sua morte. Negò l’amore per il docente, distruggendo il testamento della figlia, cancellando ogni dedica siglata 《AMC》e bruciando fotografie, nel tentativo di immortalarne un’immagine più allineata ai valori familiari.
Il 3 dicembre 1938 Antonia Pozzi si suicida con i barbiturici nei prati adiacenti l’abbazia di Chiaravalle. Di lì a poco avrebbe compiuto 27 anni. Oggi la residenza estiva della famiglia a Pasturo in Valsassina - una splendida villa settecentesca - ospita l’Archivio Pozzi. Il paese originario di Agnese, la mamma di Lucia. Un lavoro filologico certosino ha restituito la veste originaria a quasi tutti i testi poetici e non.
Che fine fece il professore? Antonio Maria Cervi visse da solo a Roma, docente universitario di Storia comparata di lingue classiche.
Perché “Pudore”?
Diamo la parola alla Treccani:
pudóre [dal latino pudor -oris, der. di pudere «sentir vergogna»]. Senso di riserbo, vergogna e disagio nei confronti di parole, allusioni, atti, comportamenti che riguardano la sfera sessuale. Ritegno, vergogna, discrezione, senso di opportunità e di rispetto della sensibilità altrui. Più genericamente: sentimento e atteggiamento discreto e riservato.
Pudore è una poesia che lascia senza fiato, scritta nell’anno horribilis della rottura forzata con Antonio Maria Cervi. Cristallina, elegante, semplice. Ma è un ricamo libero solo in apparenza, cesellato da chi padroneggia il labor limae e non si stanca di perfezionare il disegno preparatorio.
Una bella lezione sul pudore che solo preserva la profondità dei sentimenti. Se siete d’accordo, scrivetemi nei commenti.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Pudore” di Antonia Pozzi: testo e analisi della poesia
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