Puttana
- Autore: Nelly Arcan
- Genere: Romanzi erotici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Gremese
- Anno di pubblicazione: 2014
Se Nelly Arcan fosse stata una qualunque, una qualunque scrittrice soft-core, il suo “Puttana” (Gremese, 2014) sarebbe stato (puah!) paccottiglia, derivato ennesimo dal genere sfumature di niente sotto make-up sterilmente hot. Ma - fatte le debite proporzioni - Nelly Arcan è la Sylvia Platt del romanzo finto-coitale, teorica dell’amplesso penitenziale, nichilismo puro combinato allo “zoo di Berlino”, combinato all’auto-fiction, io-diviso tra amore e morte. Si fatica a definire “Puttana” in senso univoco, meno che mai erotico, se non in bilico sulla tanatologia: al suo interno eros e thanatos si incrociano, si piacciono, si congiungono più per ineludibile nostalgia dell’abisso che per altro.
“Puttana” è un romanzo bellissimo e senza alcuna via di uscita, una prolungata incursione negli inferi del sesso mortifero e della colpa, un’elegia sentimentale implacabile, struggente, spietata, un romanzo freudiano, come accennato, perché scava scava va a finire sempre che la causa della rovina di tutti i “maledetti” di questo mondo è sempre la mamma (ma pure il papà ci mette del suo), di un rapporto simbiotico e duale (amore/odio), irrisolto, disfunzionale, da eterna bimba “angioletto” ribelle, perseguitata dal fantasma della sorellina morta piccola e dunque potenzialmente perfetta, la sorella evocata/esorcizzata persino attraverso il nome di escort d’alto bordo che si è dato: Cynthia, come dire vivere e far rivivere per interposta persona.
Nelly Arcan (e l’indimenticabile io-narrante del libro con lei) coccola l’idea del suicidio come si coccola un’idea di salvezza: lo fa in questo romanzo, lo farà nel successivo “Folle” (Gremese) e poi un giorno nella vita vera, uccidendosi ancora giovane. Il titolo non tragga in inganno: se siete alla ricerca di prurigini a chiare lettere, di rivelazioni scottanti, di “corpi in azione” più o meno orizzontale, fareste bene a girare alla larga da questo romanzo, perché “Puttana” è di tutt’altro genere, è un romanzo pericoloso e elegante, crudo ma persino poetico nella sua crudezza, disperante ma senza il patetismo da cinema dei “telefoni bianchi”. Cynthia è un Dorian Gray senza più l’alibi fornito dalla maschera: sotto il suo trucco da bella di giorno è dunque nuda, impudica, lacera, analitica fino all’autolesionismo. Cynthia non soffre la fame, se non quella dell’anima: è una studentessa universitaria capace e carina, si prostituisce per denaro, per liberarsi dall’ingombro di una madre inadeguata, per sentirsi finalmente viva, per sfiorare più da vicino la morte.
“Le conoscete già, le centoventi giornate di Sodoma, le avete lette senza riuscire ad arrivare alla fine, e sappiate che io sono arrivata alla centoventunesima, tutto è stato fatto secondo le regole e continua in questo modo, centoventidue, centoventitré, c’è innanzi tutto l’agenzia che bisogna contattare al telefono la mattina per prenotare il posto, bisogna chiamare molto presto per ricevere l’autorizzazione a essere presente quel giorno, nel menu del giorno, posso lavorare per voi oggi?, sono autorizzata a prostituirmi da voi, nei vostri appartamenti? (…)”.
Attraverso una narrazione tutta così, fluviale, sostenuta da lunghi periodi dove le virgole sono la sola possibilità offerta al lettore di (ri)prendere fiato – “Puttana” è una tela di ragno, il resoconto in progress di una morte dell’anima: impossibile sottrarsi alla sua stregonesca malia narrativa, ti tocca seguirla pagina dopo pagina, fino all’ultima, fino alla fine, consapevole del fatto di stare sbirciando nella voragine di un’interiorità ferita a morte (e non certo, non solo, per via della sua prostituzione), che a ogni sorriso da bambola che le tocca fare, a ogni sì che le tocca di dire, sanguina sempre di più, e vuole sanguinare.
Puttana
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