

Pyongyang blues
- Autore: Carla Vitantonio
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Add editore
- Anno di pubblicazione: 2019
Tra agosto e ottobre la Corea del Nord mostra di sé l’altra faccia della medaglia: nello stadio Rungrado May Day di Pyongyang, si raduna ogni anno una folla oceanica. Nel corso di svariate esibizioni, danzatori, ginnasti e persino spettatori sugli spalti, si producono in esercizi di sincronia con cartoncini colorati e altri oggetti. L’evento va sotto il nome di Arirang ed è conosciuto ben oltre il famigerato “asse del Male”.
Per pronunciare sentenze oggettive su un Paese sotto dittatura bisognerebbe fare attenzione alle sfumature e accantonare i pregiudizi: possibile che tanta abnegazione popolare sia frutto esclusivo di coercizione? Aldilà dell’occhio onniveggente della STASI molti cittadini dell’ex DDR ci credevano davvero. Così come l’impero sovietico per anni ha poggiato anche sull’orgoglio nazionale dei suoi abitanti. In maniera più subdola il capitalismo globale ha reso sudditi-desideranti merceologici quelli che nei regimi comunisti erano - e sono, nel caso della Corea del Nord - sudditi e basta. In altre parole: il piatto della bilancia neo-liberista non è meno coercitivo di quello comunista, quest’ultimo fondato, se non altro, su collanti ideali piuttosto che sull’aspirazione al consumo indotto.
Credete che questo panegirico sia a sostegno dell’indifendibile regime di Kim Jong-Un? Affatto. Sto solo cercando di dirvi di stare attenti al pulpito dal quale vengono le prediche. La storia è anche una questione di punti di vista e di dettagli. Pyongyang blues (Add, 2019) potrebbe insegnarcelo. Un libro illuminante: un diario-reportage sulla Corea del Nord sgombro di pregiudizi e attento al solitamente sottaciuto. Carla Vitantonio inquadra il governo monolitico di Kim Jong-Un da focus inediti (dimenticatevi le veline filoamericane dei tg) e lo fa a partire dal basso, cioè dalle vite, le storie, le abitudini della nazione.
Il suo senso ultimo è anche coraggioso: da un lato si interroga su uno dei pochi modelli comunisti sopravvissuto alla fine del comunismo, dall’altro sulle ricadute generazionali prodotte dallo straripamento globale del sistema capitalista (flessibilità lavorativa in primis).
Quando Carla Vitantonio atterra all’aeroporto di Pyongyang forte di un lavoro come insegnante di italiano, è l’estate del 2012, ha da poco superato i trenta e non immagina che in Corea del Nord trascorrerà i successivi quattro anni (diventa anche capo missione di una Ong internazionale). A proposito dell’Arirang da cui abbiamo cominciato, scrive tra pagina 52 e 53:
È bello l’Arirang. So di essere impopolare quando lo commento, e per questo ho smesso di esprimermi con i miei amici espatriati, ma non provo nessun sentimento di pena nè di indignazione per le decine di migliaia di performer che all’unisono si muovono attraverso la narrazione. Nemmeno per i bambini (…) Secondo me, la cosa che a nessuno di noi va giù e che sappiamo bene che con la pura coercizione il regime non sarebbe stato capace di convincere tutta questa gente a sottoporsi a estenuanti prove ogni anno sotto il sole per mesi e mesi. Con la pura coercizione il regime non sarebbe riuscito a spingere le vecchie contadine con i loro ch’imachŏgori sugli autobus di seconda mano. Secondo me, quello che vediamo durante l’Arirang e che ci fa rosicare, e ci fa puntare il dito contro i bambini, contro l’inumana perfezione delle decorazioni umane sullo sfondo, contro le acrobazie e la musica patriottica, e che loro ci credono. Che il grande miracolo del regime e di essere riuscito a convincere una buona parte dei propri cittadini che questo non e mito, questa e storia.
Secondo me la tesi dovrebbe far riflettere. Certo che i coreani qualsiasi (quelli che nulla hanno a che vedere coi militari e/o i diplomatici) sentono il peso delle schermaglie intraprese col resto del mondo. Ma è proprio questo percepirsi invisi, proprio la convivenza con la paura di un attacco americano, a cementare e accrescere il senso di identità nazionale. Aldilà delle possibili apparenze Pyongyang blues non è un libro schierato. Si tratta piuttosto di un libro acuto e coraggioso, che induce al pensiero divergente e d’altro canto non certo partigiano. Auspico una diffusa presa di coscienza fra i lettori.

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