Racconti di un pellegrino russo
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“Sono diventato come un mentecatto, non ho preoccupazioni di nessun tipo, nessun interesse, non soffermerei lo sguardo su niente di mondano, me ne starei sempre in solitudine; per abitudine ormai desidero una sola cosa: recitare ininterrottamente la preghiera e, quando mi ci immergo, mi riempio di gioia. Sa Dio che cosa mi sta succedendo.” (Pag. 46)
L’esichia – dal greco hesychìa tradotto con pace interiore – è la pratica, il desiderio, la gioia della recitazione continua e perpetua della preghiera del cuore:
“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Questa frase richiama e riprende due versetti della Bibbia: l’esclamazione del cieco nell’incontro con Gesù : “Allora incominciò a gridare: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!" (Lc 18,38) e quella del pubblicano: “Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.“ (Lc 18, 13)
L’unione di queste due frasi costituisce il richiamo all’umiltà delle due figure nel cospetto di Gesù.
La ripetizione della preghiera è un atteggiamento mistico. Il peccatore la recita per affermare la trascendenza di Dio. Se tutto il corpo è dedicato incessantemente alla declamazione della preghiera, esso cessa di essere una cosa e diventa soggetto spirituale dell’amore al Signore. La materia e i corpo si trasfigurano, cercando di pervenire al fine: l’unione a Dio.
Sul Monte Athos centro di spiritualità pura, distante dalle tentazioni umane e materiali, il corpo è fuso con l’ambiente impervio, affascinante delle alte montagne e del mare.
In questo piccolo territorio i monaci – giovani ed anziani – si isolano per potersi dedicare alla preghiera.
E proprio sul Santo Monte, il pellegrino di ritorno da Gerusalemme, conclude la sua consacrazione alla preghiera.
Scritto da un anonimo, si dice nel XIX secolo, Racconti di un pellegrino russo, letto nella edizione Paoline del 2007, narra in modo semplice le gioie e le sciagure di un uomo devoto. La sua vita rimbalza fra gli estremi della sorte, assegnando il giusto valore alla vita, compreso il male.
La sua esistenza ci è raccontata come un romanzo di azione. Orfano, è accolto in casa dal ricco nonno. Si sposa con una ragazza da cui è amato.
Alla morte del nonno, eredita i beni a discapito del fratello cattivo, il quale si vendica incendiando le proprietà e ferendo il fratello al braccio sinistro, rendendolo menomato ed inabile al lavoro.
Ridotto in miseria, l’amata moglie muore di stenti.
A questo punto decide di partire: getta nella bisaccia del pane secco e la Bibbia e si incammina.
In una chiesa, ascoltando la prima lettera di San Paolo ai Tessalonicesi: “pregate incessantemente.” (1Ts 5, 17), si domanda dove può imparare questo metodo.
Ha individuato la via per spingersi a Dio.
Tutte le disgrazie della sua esistenza sono annullate dal suo sacrificio a Dio.
Uomo fedele, in questi racconti, riesce a rileggere la sua vita attribuendo a Dio il suo giusto potere. E’ la sua volontà, contro cui l’uomo – peccatore – non può fare nulla, salvo che pregare.
Nel suo girovagare incontra un maestro. E’ lui ad iniziarlo alla preghiera del cuore.
Il suo compito è recitare sempre, ovunque, senza mai smettere migliaia di volte al giorno il solito mantra.
Deve svegliarsi prima la mattina e andare a dormire più tardi, per avere più tempo da dedicare alla preghiera.
Le difficoltà iniziali sono superate con l’aiuto del maestro e dopo la sua morte, grazie al libro Filocalia. E’ assuefatto, deve proseguire ostinato, altrimenti si sente male, deve trovare la solitudine, la pace per dedicarsi per intero alla sua attività trascendente.
Questa tecnica mistica richiede di continuo un maestro. Non c’è stato bisogno solo in pochi casi di prematura santità.
In tutte le altre circostanza bisogna affidarsi alle cure e all’insegnamento di un monaco. Questo legame con il maestro è necessario; la pratica, senza una conduzione sicura, potrebbe essere dannosa.
“… senza la guida di un maestro è disagevole e poco efficace applicarsi arbitrariamente al lavoro interiore.” (Pag. 37)
Anche un eremita lontano dal mondo reale, senza nessun attaccamento ai beni materiali può avere un altro tipo di vanitosa dipendenza: quello alle pratiche spirituali, alla preghiera fine a se stessa.
E’ il maestro, ad aiutare a svuotare la mente, allontanare i pensieri – ogni tipo di pensiero: buono e cattivo – per tentare quella trasfigurazione necessaria.
E’ il maestro ad incutere la necessaria umiltà, sono i suggerimenti del maestro a consentire la cancellazione dell’ansia.
Per poterci riuscire deve trovare un ambiente solitario, isolato, per dedicarsi alla sua funzione; nulla deve distoglierlo.
Tutto deve essere eliminato, pure la vanità dello studio e della erudizione, un limite per la liberazione del cuore:
“… che non con la sapienza di questo mondo e non con l’esteriore amore della conoscenza si raggiunge la luce celeste …” (Pag. 33)
Il fine del pellegrino russo sarà la recitazione non voluta. La preghiera esce da sola, senza nessun sforzo. Il pellegrino è diventato egli stesso una preghiera.
La studiosa Cristina Campo definisce i racconti come un “trattato spirituale, romanzo picaresco, poema russo e fiaba classica”.
Contiene tutti questi elementi. Ci aggiungerei dei colpi di scena notevoli.
L’incidente con la carrozza dello zar, la quale colpisce la casa dove si era rifugiato il pellegrino, nello stesso momento in cui la domestica stava tentando le sue virtù.
Oppure l’episodio del capitano alcolizzato, guarito con la medicina del vangelo.
C’è qualcosa di più moderno, per l’epoca in cui è ambientato: un romanzo on the road. La costruzione della storia avviene tutta sui sentieri impervi e difficoltosi del pellegrino.
Egli continua imperterrito, indifferente alle minacce e ai pericoli.
Parte dalla Russia, fino a raggiungere Gerusalemme e ritrovarsi sul Monte Athos.
Attraversa i territori ed entra in contatto con nuove e differenti realtà.
E’ una comparazione di civiltà e di culture.
Nelle sue rocambolesche avventure, è considerato un medico, un veggente, un guaritore, ma in pochi riescono a comprendere la sua vera figura.
Per alcuni è un aiuto, per altri un maestro. Ma quando l’ambiente circostante diventa soffocante, per l’umano desiderio di attaccarsi ai beni e alle persone, è meglio partire.
E così il nostro pellegrino si rimette in viaggio.
Riesce sempre a distaccarsi dal mondo attiguo, anche quando è amato e benvoluto.
Perché ha raggiunto un misticismo spirituale:
“Secondo la disposizione interiore dell’anima si misura la natura delle cose, ossia ciascuno giudica gli altri secondo quello che è lui” … “Chi ha raggiunto la vera preghiera e la vera carità, non vede differenze fra le cose, non distingue il giusto dal peccatore ma ama tutti ugualmente …” (Pag. 155)
Un libro poetico, sulle possibilità infinite dell’uomo e sul suo desiderio religioso.
Racconti di un pellegrino russo
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