Ritorno a Weimar
- Autore: Anne-Marie Hirsch
“Importante è compiere il proprio destino”. Così Gertrud Kolmar prima di scomparire nella notte della storia.
Negli stessi anni, un’altra giovane donna, tedesca sposata a un ebreo, Otto Hirsch, attraversa l’utopia di Weimar.
La Repubblica (1919-1929) non è stata solo una parentesi politica di breve durata. Si è trattato invece del tentativo concreto di costruire un’alternativa sociale, fatta di convivenza, solidarietà, aperture culturali, della quale la Germania avrebbe voluto dimostrare la validità non solo per se stessa ma anche per la “rinascita” dell’Europa.
Schiacciata da un conservatorismo endemico e dalla crisi economica che sempre più aveva dato fiato alla propaganda nazionalista, l’avventura di Weimar, già in affanno ai suoi inizi, si chiude definitivamente proprio nel ’29, l’anno del “venerdì nero”.
Anne-Marie Hirsch, costretta a emigrare in seguito al mutamento repentino e violento del proprio paese, dove trovò terreno fertile l’intolleranza che portò alla catastrofe, ha assistito all’infrangersi di un modello a cui, sotto l’influsso di una madre colta ed emancipata, aveva aderito con forza.
Anni dopo, in un memoriale lucido e asciutto, ripercorre i fatti che l’hanno costretta a spezzare il legame con il proprio paese, in seguito ai quali ha affrontato una lunga e sofferta separazione dai luoghi e dagli affetti della sua giovinezza. In cerca di una ragione al naufragio delle idee in cui aveva creduto, la Hirsch scrive una storia di lacerazione e forzato abbandono delle proprie origini, ponendo sullo sfondo tanti conflitti irrisolti che ancora agitano la nostra attualità. Del resto, proprio l’esilio, peraltro elemento fondante, si potrebbe dire, della cultura occidentale, è la vera patria dell’intellighenzia di Weimar, e di tutti coloro che, come la scrittrice, hanno ruotato attorno al suo progetto.
“Ho riletto in questi giorni Hölderlin di Laplanche, che mi ha affascinata, e mi ha permesso di cogliere, una volta di più, fino a che punto il romanticismo tedesco mi abbia influenzata, e perfino sovradeterminata, proprio come ha influenzato Otto. Penso che i nostri rispettivi ambienti abbiano ricercato in piena consapevolezza quest’influenza, di contro alla follia distruttiva dell’epoca. Ci sono state ben prima del muro, due Germanie: una weimariana, l’altra hitleriana”.
Forse eccesso di semplificazione, la storia è forzata in una dicotomia che appare a tratti stridente al lettore, dandogli l’impressione di un artificio costruito a tavolino, anche quando si tratta del racconto degli umori di chi ha vissuto gli eventi. Anne-Marie sembra dunque indulgere più nel considerare il mito che le ricadute reali della politica di Weimar.
Eppure l’idea di Weimar, “luogo eletto” di ingegni, energie creative, volontà messe a disposizione di un’ipotesi di conciliazione sociale, ha continuato a sopravvivere nell’immaginario collettivo anche, e soprattutto, proprio attraverso la mitologia che istantaneamente è scaturita in seno a questa esperienza, quasi precedendone percorsi ed esiti.
D’altra parte, ogni mito, si sa, presuppone un intreccio di storie che prendono vita nel vorticante e traumatico farsi della Storia. I miti, quindi, non si identificano del tutto con questa ma necessariamente vi si confrontano. Aby Warburg, una delle più eccentriche e complesse personalità weimariane, è stato, non per caso direi, tra coloro che maggiormente hanno indirizzato il proprio studio alla sopravvivenza e all’influsso dell’antichità classica nella cultura occidentale. Il suo lavoro, immediatamente sfociato nell’Istituto Warburg ad Amburgo, è sintomatico di una reattività intellettuale che compensa con straordinario slancio sensibile il disorientamento e il vuoto di potere presenti nella società tedesca dopo la disfatta della guerra.
Senz’altro siamo davanti a un periodo di contrasti, per quanto riguarda le scelte di un paese che ha sofferto il vulnus di una dura e sanguinosa sconfitta, alla quale non si risolveva a rassegnarsi, e del conflitto interno, cui si accompagna un progressivo disincanto, e ancor più ci troviamo a considerare un punto cruciale nella storia della Germania e dell’Europa.
Il decennio di Weimar emerge da un dramma.
“La repubblica nacque nella disfatta, visse nel turbamento e morì nella catastrofe”,
chiosa efficacemente Peter Gay. Ma non solo il dramma della guerra incombe sugli inizi di un’ “epoca interrotta”, alimentandone in parte quella stessa nemesi che la colpirà definitivamente a morte; vi è un altro aspetto gravoso sul destino di questa esaltante quanto sfortunata stagione: l’inguaribile scetticismo dei suoi sostenitori.
“Nel tardo 1918, in licenza in Germania, (l’architetto Walter Gropius decise un viaggio a Berlino e fu nel corso di questo che scoppiò la rivoluzione. Testimone degli oltraggi inflitti agli ufficiali dalle masse in rivolta, un improvviso pensiero lo colse: «Si tratta di qualcosa di più grave che una guerra perduta. Un mondo è giunto alla fine: dobbiamo cercare una soluzione radicale ai nostri problemi». Gropius non fu l’unico. La sua evoluzione intellettuale in cui l’esperienza della guerra valse a inserire in una prospettiva politica idee già elaborate durante l’impero e che avrebbero trovato poi aperta espressione nel corso della rivoluzione, fu tipica di molti rappresentanti dello spirito di Weimar. […] Gli eventi dell’inverno 1918-’19, seguiti dagli anni tumultuosi della fondazione, valsero però a sperperare il capitale di buona volontà accumulato nei giorni della catastrofe e della speranza. Come ne aveva suscitato l’approvazione, nel suo corso e con le sue conseguenze la rivoluzione finì per deludere molti per diverse ragioni: i nuovi conservatori crebbero proprio nello spregio delle innovazioni che la repubblica aveva introdotto, mentre i radicali, dal canto loro, trovarono motivo di opposizione in ciò che dall’impero era stato risparmiato”.
La puntuale analisi di Gay ci racconta di una creatura fragile condannata a non avere l’occasione di riscattarsi dai suoi stessi padri, che se da una parte concepirono momentanee simpatie non seppero mai volgerle a un affetto incondizionato e disinteressato per ciò che Weimar avrebbe potuto diventare, se appoggiata senza riserve nel suo cammino di maturazione.
Non a caso il volto e la voce di Gropius si fanno strada anche dentro il racconto della Hirsch. L’architetto è ricordato, poco prima di partire per gli Stati Uniti, nel momento del congedo, proprio a casa dei genitori di Anne-Marie ad Halle, all’indomani della chiusura da parte dei nazisti della Scuola d’arte applicata di Dessau. La sua immagine diventa il simbolo della diaspora della cultura e dell’arte di Weimar.
La ferita sarà profonda, ci vorranno anni prima di poter pensare a sanarla. Sul filo di un’epoca spezzata, si diceva, anche la memoria della Hirsch procede faticosamente, impigliata com’è in questa dolorosa interruzione. È tra le macerie di Berlino che comincia un lento ritorno al mondo, violentemente strappato alla propria vita, abbandonato anche nel ricordo, quindici anni prima.
“Berlino, 1947. Una distesa di macerie e di neve, uno spettacolo da fine del mondo. Eccomi qua, con le mie due valigie, davanti a un deserto bianco. […] Macerie, macerie a perdita d’occhio. Crateri, rovine. Facciate annerite, mezzo crollate. Finestre sventrate. […] Questa Berlino ormai solo macerie…”.
Esattamente qui si avvia la risalita agli anni di Halle, ai giorni di una giovinezza quasi immacolata. Il ballo del rettorato, la serata in cui conosce suo marito, medico ebreo tedesco al primo incarico, gli incontri al caffè Zorn, il padiglione dove ogni sera si faceva musica in città, le letture, le discussioni politiche in famiglia, infine il matrimonio con Otto in una Dortmund innevata sotto il sole di dicembre del ’33. Ma il sogno ha già cominciato a incrinarsi. Gli effetti dell’inflazione, che sempre più sovvertono e destabilizzano la società, la disoccupazione dilagante, il crescere delle tensioni, l’inizio della caccia all’uomo, il primo arresto di Otto, la fuga di lui e Anne-Marie.
“Stravolte, tenendosi per mano, quattro figure barcollavano verso un camion. Dei nazisti le insultavano, ridevano, le spingevano con la punta dei loro revolver. La folla guardava, io guardavo, nessuno interveniva. Si può anche impazzire, di colpo!”.
L’ultima atroce fotografia di Dortmund. Voltare le spalle fa male ma bisogna provare a salvarsi. In Francia, Bordeaux, Caylus, una vita da clandestini e apolidi. Le lunghe notti col fiato sospeso, la paura dei pattugliamenti e delle rappresaglie.
E sempre la sensazione di aver subito gli eventi, nell’impotenza, senza aver compreso fino in fondo in che modo il seme della discordia e della nuova guerra fossero maturati dentro Weimar.
In mezzo alle rovine, sul treno che la riporta dai suoi genitori, inizia un percorso a ritroso. Ma lo strappo, lungi dall’essere cucito, perdura nella divisione della Germania che diventa il limes desolato delle contraddizioni dell’occidente, concentrate in quella no man’s land, la striscia di deserto e mine estesa cinque chilometri e attraversata dall’Interzonenzug, cui di lì a poco si aggiunge la vergogna del Muro. I tanti ritorni ad Halle della scrittrice si trasformano in un lungo processo di “elaborazione” del lutto, sia collettivo che individuale, oltre al rafforzamento di quella consapevolezza che la propria vita è stata ed è attraversata dalla divisione.
Dopo l’amaro e insopportabile passaggio nel deserto del sé e del proprio paese, cosa resta?
“Qualche fantasma.
La mia memoria.
La mia stanchezza e la mia vita.
In questo treno che se ne va”.
Ma più forte è il desiderio di tornare, e più forte ancora quello di capire.
- Titolo: Ritorno a Weimar
- Titolo originale: Retour à Weimar
- Autore: Anne-Marie Hirsch
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
- Collana: Varianti
- Anno di pubblicazione: 1991
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