Samuel Beckett. Nel buio di un teatro accecante
- Autore: Giancarlo Cauteruccio
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Anno di pubblicazione: 2016
Rappresi sull’orlo dell’abisso, scissi tra desidero d’azione e inanità; ostaggio di corpi incongrui, discendenza carnale del Vuoto, contigui all’alienazione, allo straniamento. Samuel Beckett pone gli attori del suo teatro dell’assurdo a un passo dalla deriva metafisica, paradossale al punto da sfociare in umorismo macabro, deprivato di senso. Nell’afasico incespicare ontologico di Vladimiro ed Estragone di “Aspettando Godot” come in quello di Hamm e Clov in “Finale di partita”, per non dire della presa di coscienza che - in “L’ultimo nastro di Krapp” - coglie il clown prossimo alla morte. Piuttosto che interessarsi alla trama, il corpus narrativo beckettiano ha assunti filosofici, eviscera situazioni, contesti e personaggi-tipo che rivelano la mancanza di significato della realtà, il destino ultimo della progenie umana cui è preclusa ogni forma di azione o salvezza. Nell’universo beckettiano, a ben guardare, ogni teleologia risulta inutile o fine a se stessa: non c’è nulla per cui valga la pena lottare, nessun dio, nessuna fede, nessun ideale. Per questo - ancora - i suoi personaggi appaiono destinati alla solitudine, all’incomprensione, inidonei alla vita, irretiti nel proprio io, in un viaggio illusorio “dal ventre alla tomba”. Come scrive Giancarlo Cauteruccio nella sua introduzione a “Samuel Beckett. Nel buio di un teatro accecante” (Edizioni Clichy, 2016)
“La macchina del teatro può (…) aiutare l’autore a porre in scena le sue creature: pronte a giacere in prossimità per poi sprofondare nella botola della crosta terrestre; ingabbiate nella gravità, da cui cercano ossessivamente di liberarsi con movimenti goffi, maldestri, ripetitivi (…) I loro corpi sono spesso mutilati o menomati (…) devastati dal tempo, costretti in gabbie reali o metaforiche, si trascinano nello spazio scenico, entrano in relazione con gli “oggetti conoscitivi” che Beckett dissemina nel deserto delle loro esistenze” (pag. 21)
Sulla scia dei pregevoli volumetti della collana Sorbonne anche questo di Cauteruccio comincia con una prefazione che inquadra lo specifico dello scrittore irlandese secondo una prospettiva sentimentale/universale (se mi passate l’ossimoro). Quindi le pagine sono occupate dalle parole, le riflessioni, le immagini, le idee, che ne hanno concorso alla reputazione nella storia del Novecento.
“Ho provato. Ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”
nella lapidarietà di queste parole (riportate sulla quarta di copertina), per esempio, credo sia possibile rintracciare per intero il senso del pensare e dello scrivere beckettiano.
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