Scompartimento N. 6
- Autore: Rosa Liskom
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Iperborea
- Anno di pubblicazione: 2014
Rosa Liksom, il cui vero nome è Anni Ylaavara, è nata in Lapponia e dunque la sua patria, la Finlandia, è vicinissima alla Russia: questa una delle ragioni per cui da giovane scelse di studiare a Mosca. Il suo lungo racconto dal titolo checoviano, “Scompartimento N. 6”, prende spunto dalla corsia n.6 di un manicomio, il luogo in cui è ambientato un racconto del 1892 del grande narratore russo. La stessa Rosa aveva compiuto per studio il viaggio sulla mitica ferrovia Transiberiana da Mosca ad Ulan Bator che è al centro della storia che viene raccontata nel romanzo.
Una ragazza, il cui nome non viene mai pronunciato, lascia Mosca in treno per raggiungere la Mongolia, dove conta di visitare delle antichissime iscrizioni rupestri che la interessano per i suoi studi. Lo scompartimento numero 6 ha quattro cuccette, due delle quali sono chiuse:
“Quel treno l’avrebbe condotta attraverso villaggi abitati da deportati , attraverso città aperte e città chiuse della Siberia, fino alla capitale della Mongolia, Ulan Bator”.
Presto viene raggiunta da un uomo maturo, dall’aspetto rude, un operaio probabilmente, che sarà il suo compagno di viaggio per giorni e giorni. Dentro lo scompartimento del treno i due condivideranno cibi, odori, sfoghi, aggressività, silenzi, racconti, paure, rabbia, riposo, rabbia, incomprensioni e anche, alla fine, qualche complicità, in uno spazio chiuso dalle forti connotazioni metaforiche.
Vadim, così si chiama lui, è un russo che sta ripercorrendo le fasi della sua vita. Siamo negli anni Ottanta e pochi anni mancano alla fine dell’impero sovietico, ma già i sintomi della decadenza e della consapevolezza che quel sistema ha finito la sua parabola si sono fatti strada in un cittadino sovietico che pure ha amato la sua patria, ha creduto con forza alla rinascita del paese dopo la Seconda guerra mondiale, ha conservato i suoi principi di fedeltà ad un regime fatto di case in comune, miseria, lavori forzati. Vadim è un violento maschilista, un feroce antisemita, usa un turpiloquio colorito e violentemente misogino, ha un coltello affilato con cui ha compiuto gesta cruente, spaventa a morte la ragazza con le sue goffe e sboccate proposte sessuali, ha una fame inesauribile, beve vodka procurandosi sbronze che lo precipitano in un sonno lungo e rumoroso. Con un simile compagno di viaggio, mentre la donna che fa funzioni di capotreno, la potente Arisa, lo minaccia per le sue intemperanze, il viaggio della ragazza sembra svolgersi in condizioni proibitive: le latrine sono infrequentabili, le soste del treno numerose e imprevedibili, il gelo sembra avvolgere tutto il paesaggio mentre ci si allontana sempre di più da Mosca, che appare ormai lontanissima. Le città che il treno attraversa, malgrado la locomotiva sia antiquata e necessiti di lunghi riposi, sono tante: Tomsk, Krasnojarsk, Irkutsk e finalmente la meta, la capitale della Mongolia.
Attraverso la Siberia la ragazza, sotto la guida di Vadim, che alterna atteggiamenti di aggressività sessuale ad altri di paterna amicizia, scopre paesaggi e situazioni sociali, economiche, antropologiche che la spaventano e affascinano ad un tempo. Il treno si è fermato a Novosibirsk a lungo e i due compagni di viaggio loro malgrado prendono una macchina per girare la città e anzi se ne allontanano. Alla periferia,
“Tutt’a un tratto, da dietro l’angolo dell’emporio spuntò un’orchestra. I figli della Siberia, vestiti da pionieri, marciavano cantando al ritmo di un piccolo tamburo per la via principale del villaggio. I loro corpi smunti e infantili erano vestiti di ampie maglie marroni gonfiate dal vento gelido, sulle quali spiccavano i fazzoletti rossi, e dei berretti con pompon multicolori nascondevano i volti aperti e innocenti”.
L’Unione Sovietica è un immenso territorio e, dice Vadim,
“le nostre risorse umane sono inesauribili, le masse non si estingueranno mai”.
La consapevolezza che l’impero sovietico stia avviandosi verso la sua dissoluzione è un tarlo che Vadim porta dentro di sé ma ostenta con la ragazza un orgoglio e una fede ai quali si aggrappa con determinazione. Lenin e perfino Stalin sono i padri della Patria, senza discussioni.
Ma quello che più colpisce in questo romanzo è l’altissimo grado di letterarietà, che pervade il testo anche per le numerose citazioni di opere letterarie e musicali che compaiono nel testo nei momenti più diversi della narrazione. Le musiche che accompagnano i viaggiatori nelle desolate stazioncine o nelle piazze dei villaggi ci parlano di una cultura musicale capillarmente radicata: Rachmaninov suonato da un pianoforte, La danza delle spade di Khacaturian, Il canto dell’ospite vichingo di Rimskij-Korsakov sono trasmessi da vecchi altoparlanti. Tante sono le citazioni della grande letteratura russa, dai classici agli autori dell’opposizione, per tutti “Il Maestro e Margherita”, oltre a poeti e scrittori a noi meno noti che sono disseminati nelle pagine del racconto, dando al testo una forte connotazione di cultura diffusa.
La scrittrice usa una lingua, tradotta magistralmente dalla studiosa Delfina Sessa, che firma anche l’esauriente postfazione al romanzo, piena di figure retoriche che ne rendono il ritmo e l’andamento così simile allo scorrere del treno sulle rotaie; ricorre frequentemente all’anafora, per raccontare la ripetitività dell’addio a Mosca della giovane studentessa:
“E così si allontana da Mosca nel suo manto invernale….Si allontana da Mosca con le sue luci, il suo traffico chiassoso, il girotondo delle sue chiese….Si allontanano le rare insegne al neon che brillano contro il cielo nero e accigliato….si allontanano la Piazza Rossa e il suo mausoleo…….Si allontanano Mosca, Irina, la statua di Puskin, gli anelli e le tangenziali, le grandi arterie di Stalin…..”.
Numerosi anche i lunghi elenchi, con la ripetizione quasi ossessiva di uno stesso termine, per raccontare come ormai tutto, in Unione Sovietica, anche gli oggetti dell’abitudinaria quotidianità, abbiano concluso la loro funzione:
”le scope per le scale, le scope per l’atrio, le scope per il soggiorno, le scope per le camere, le scope per le cantine, le scope per i selciati, le scope per le stalle, le scope per i fienili, le scope per i gabinetti, le scope per i pozzi, le babuske avvolte in grandi giacche di lana nera che passano davanti e indietro indifferenti le loro scope consunte”.
Malgrado il lunghissimo viaggio attraverso migliaia di chilometri gelati di territorio, fra popolazioni diverse e straniere le une alle altre, unite dal simbolo su ogni edificio pubblico ad indicare lo Stato e la sua unicità, il pensiero della ragazza, giunta all’estremo confine orientale dell’impero, cioè alla meta che si era prefissa, è uno solo: tornare dove ha lasciato il cuore e tutta se stessa,
“A Mosca! a Mosca!”
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