“Trieste è la città, la donna è Lina, per cui io scrissi il mio libro di più ardita sincerità” scrive Umberto Saba nella lirica Ed amai nuovamente per chiarire e definire i due termini estremi della sua poetica, espressi nella quarta sezione del Canzoniere: Trieste e una donna (1910-1912).
Della donna, Lina, abbiamo già parlato lungamente soffermandoci sulle poesie a lei dedicate (tra le quali ricordiamo anche A mia moglie e La gatta); ora ci concentriamo sulla città di Trieste, patria natale di Umberto Saba e anche suo luogo dell’anima.
Nell’arco del suo Canzoniere infatti Saba sembra operare un progressivo processo di metamorfosi che lo unisce alla città, dalla “grazia scontrosa”, che infine diventa specchio del suo essere, legata indissolubilmente al suo sentire e al suo destino. Nei versi di Trieste, alla fine, appare impossibile distinguere l’uomo - il poeta - dalla città: i due appaiono in simbiosi, la metamorfosi si è compiuta, la città natale sembra richiamare l’autore all’interno del suo grembo materno. La città assume la forma della vita del poeta, sembra modellata a sua immagine e somiglianza come se lui, attraversandola interamente a piedi, fosse riuscito a impadronirsene, a farla sua, nel finale l’uomo e la città si compenetrano.
Nelle sue vivide e feconde contraddizioni la città di Trieste si adatta alla personalità poliedrica di Umberto Saba, la sua geografia di territorio di confine - a lungo fu territorio austro-ungarico, ed è terra di mare, sempre in bilico tra due mondi - riflette l’inappartenenza del poeta, perennemente in cerca di un altrove in cui rifugiarsi. L’inquietudine dell’uomo si riflette nelle contraddizioni della città che Saba riesce a mettere in luce, con vivida emozione, nei suoi versi tramite similitudini incisive e ben riuscite, forse tra le più belle della nostra letteratura (“come un ragazzaccio aspro e vorace”/ “come un amore con gelosia”).
Vediamo più approfonditamente testo, analisi e commento della poesia di Saba.
“Trieste” di Umberto Saba: testo
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
“Trieste” di Umberto Saba: analisi e commento
Anche in questa poesia, proprio come nella celeberrima Città vecchia, Umberto Saba ci porta con sé nella sua passeggiata per le vie cittadine. Stavolta si tratta di una camminata faticosa, in salita, che lo conduce infine in un luogo tranquillo e isolato in cui finalmente può sedersi e riposare, lontano dalla folla e dal chiasso delle vie principali. Questo “cantuccio” chiuso da un muricciolo dal quale il poeta può avere una visione che pretende di essere assoluta: “e mi pare che dove esso termina/ termini la città” ricorda l’ermo colle dell’Infinito leopardiano, è un luogo di contemplazione, un rifugio dello spirito. Dall’alto il poeta può contemplare ogni cosa e, attraverso lo sguardo, sembra impossessarsene.
A questo punto la descrizione si fa astratta: la città di Trieste ci viene presentata attraverso similitudini e singolari personificazioni e ossimori.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Proprio attraverso un ossimoro ci viene presentata la contraddizione peculiare che anima la città: ha una “scontrosa grazia”, poi meglio sviluppata attraverso la similitudine del ragazzaccio (Saba altera il sostantivo in senso dispregiativo per connotarlo con una maggiore incisività) che certo può piacere a qualcuno (se piace), perché ha gli occhi azzurri (dunque appare piacente), però non è capace di generosità: ha mani troppo grandi per regalare un fiore. Ritorna qui la rima baciata fiore-amore, “la più antica e difficile del mondo”, prediletta da Saba come afferma nella poesia Amai.
M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
La rima preferita dal poeta ritorna anche nella poesia dedicata alla città natale, dove ritroviamo appunto “l’amore” nella seconda similitudine: “come un amore con gelosia”, la tenerezza suscitata dal ragazzo che ha occhi azzurri ma movimenti impacciati, tanto da apparire sgarbati, si trasfigura infine nell’amore tormentato dalla gelosia. Ne risulta un’immagine di Trieste al contempo dolceamara: appare una città aspra e tuttavia vitale, un paesaggio venato da una strana inquietudine quasi tempestosa.
Successivamente lo sguardo di Umberto Saba abbraccia per intero la sua città, osservandola dall’alto del pendio: ogni chiesa, ogni via, sino all’ultima casa isolata, ed è a quel punto che avverte circolare attorno a sé “un’aria tormentosa, l’aria natia”. I contrasti del territorio si ripercuotono nell’animo del poeta e viceversa, tanto che infine è impossibile capire dove inizi uno e termini l’altro, se sia lo sguardo di Saba a trasfigurare il paesaggio, dandogli la forma incerta della propria inquietudine esistenziale, oppure se accada il contrario.
Nel finale avviene una totale simbiosi tra l’uomo e la sua città, rafforzata dalla contrapposizione tra la città piena di vita, le sue vie affollate, la sua gente (la mia città che in ogni parte è viva), e il luogo solitario nel quale il poeta cerca il suo rifugio, modellandolo sulla sua “vita pensosa e schiva”.
Proprio nel chiasmo conclusivo nel quale si intrecciano e confondono la realtà della città affollata e la vita meditativa del poeta avviene lo scarto inatteso tra la visione oggettiva e quella soggettiva: ed è proprio scacco matto, perché a quel punto appare chiaro al lettore che la Trieste descritta in questi versi è trasfigurata, modellata dallo sguardo di Umberto Saba che non è tanto rivolto all’esterno, ma a sé stesso, è uno sguardo introspettivo teso ad analizzare il proprio tormento interiore e non il paesaggio che lo circonda.
Trieste, infine, ci appare al contempo come luogo materiale e spirituale: non è solo il paesaggio fisico, è anche la tumultuosa vita interiore del poeta, anzi, da quella vita interiore è proprio indivisibile. “Trieste è la città, la donna è Lina” ci ricorda appunto Saba: sono questi due estremi il cuore pulsante della sua poetica, una città e una donna, non solo due elementi oggettivi, ma un modo di guardare e percepire il mondo, l’amore, la vita in tutte le sue contraddizioni.
Come disse lo stesso Umberto Saba in un discorso tenuto in occasione dei suoi settant’anni presso il “Circolo della cultura e delle arti”, il 19 ottobre 1953.:
Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
E allora capiamo che Trieste per Saba non è solo una città, è un sentimento, per questo nella quarta sezione poetica del Canzoniere la accosta a Lina: Trieste e una donna - l’uso della congiunzione copulativa, che lega due elementi simili tra loro, è determinante per comprendere, il nesso che instaura un’equiparazione, la donna amata e la città natale sono sullo stesso piano nel cuore del poeta.
Naturalmente Saba lo spiega meglio:
Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin ad oggi mai l’anima partita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Trieste”: la poesia di Umberto Saba dedicata alla città natale
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