Vita e morte dei grandi Vichinghi
- Autore: Tom Shippey
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Vichingo: resta il feroce guerriero del nord per eccellenza, ma la curiosità è che nella lingua originale norrena viking sta per “ladro”, “pirata”, non certo un bel biglietto da visita. In “Vita e morte dei grandi Vichinghi”, saggio pubblicato nell’autunno 2018 dalle edizioni bolognesi Odoya (478 pagine 24 euro), Thomas Allan Shippey esamina sulla base di ogni tipo di fonte la saga del popolo guerriero settentrionale multinazionale (danesi, svedesi, norvegesi).
Erano dei violenti poco di buono, dunque, ma anche gente unita, solidale, legata reciprocamente da un forte sentimento di uguaglianza. Erano soliti prendere decisioni collettive, scegliere a maggioranza (antenati perciò della democrazia) e rispettavano l’autonomia e la dignità delle loro donne (antenati dell’autodeterminazione femminile).
In particolare, sapevano morire coraggiosamente, ridendo, declamando versi, cantando beffardamente in faccia gli avversari. Ci si infischiava della morte, quindi, dov’è risuonato il loro grido di guerra, secoli fa, dalla Groenlandia al mar Caspio, i territori dove si sono spinti nel corso della cosiddetta era vichinga, che va dalla fine del 700 dopo Cristo ai primi del Mille.
La ricostruzione di caratteri e di eventi realizzata da Shippey non trascura alcuna fonte, per quanto il letterato e scrittore subisca il fascino dell’esotismo guerriero vichingo, dal momento che dimostra di preferire alla fredda esattezza della storia la suggestione poetica delle saghe letterarie norrena, delle leggende e perfino delle cantiche che esaltano capi e condottieri (il Ragnar Lothbrock della fiction tv “Viking” su tutti, ma anche l’epico Erik il Rosso).
Il prof. Thomas Shippey, docente e studioso di letteratura medievale e anglosassone, autore di fantascienza e fantasy, è uno dei massimi conoscitori di Tolkien - le cui saghe sono state ispirate proprio da quelle degli eroi nordici - e ne ha ereditato la cattedra nell’università di Leeds.
Nella prefazione, Wu Ming 4, dell’omonimo collettivo bolognese di fanta-narratori, inquadra con estrema precisione i termini temporali dell’era vichinga. Si estendono dall’8 giugno 793 (saccheggio ad opera di pirati scandinavi dell’abbazia di Lindisfarne, isoletta nordorientale britannica) alla battaglia di Stamford Bridge del 25 settembre 1066, nei pressi di York, in cui gli anglosassoni inflissero una sconfitta decisiva al norvegese Harald. Solo poche settimane dopo, gli inglesi vennero battuti ad Hastings dai Normanni bretoni di Guglielmo il Conquistatore.
Sicché, i Vichinghi erano fortemente attratti dall’idea della morte, che indubbiamente non temevano. Credevano li attendesse un Paradiso pagano, il Valhalla, nel quale i migliori cavalieri sarebbero andati a schierarsi al fianco del dio Odino, pronti a combattere alla fine dei tempi la battaglia contro i mostri degli Inferi, sapendo però che l’avrebbero persa, perché solo la sconfitta “potrà garantire la palingenesi del mondo”.
Il paradiso, quindi, premiava non le virtù dell’uomo ma il valore del guerriero. Una volta dimostrato, né la morte né la sconfitta avrebbero potuto intaccarlo. Per questo gli uomini del nord sorridevano anche al destino avverso. E questo lascia immaginare grandi figure di coraggiosi perdenti e spiega certi atteggiamenti fatalistici assunti da eroi delle vicende norrene, che si lasciavano sopraffare pur potendo ritirarsi e non si preoccupavano di contrastare situazioni negative.
La stessa etica del trapasso sembra condivisa dalle eroine vichinghe. Senza battere ciglio, non esitavano a mandare mariti e figli verso la sconfitta certa e a loro volta potevano dare la vita per i loro uomini.
Il coraggio davanti alla morte, questo il connotato dell’eroismo. A differenza del cavaliere cristiano, che perseguiva virtù come la lealtà, la temperanza, la fedeltà alla parola data, il guerriero scandinavo poteva non conoscere la pietà, essere un uomo spregevole, privo di sentimenti, senza per questo patire una cattiva considerazione. Perché quello che contava era mostrarsi saldo anche davanti alla prospettiva della più crudele delle sorti. Gli avrebbe garantito l’accesso al Valhalla e l’eterna considerazione dei posteri.
Abietti, disumani, spergiuri, bari, infidi: pessimi soggetti questi campioni del nord, ma tanto più grandi uomini quanto più disposti a morire con un’arma in pugno.
Un altro tra gli elementi che li differenziava dai cristiani e dagli anglosassoni era la democrazia assembleare su cui basavano le decisioni del gruppo, alle quali tutti si sentivano obbligati volontariamente. Un esempio della diversa coesione tra le formazioni vichinghe di uomini uguali e pari e quelle britanniche - organizzate secondo la stratificazione della società feudale - è offerta con chiarezza dalla battaglia di Maldon, del 991. Alla morte del signore che comandava la compagine dell’Essex, i combattenti più fedeli vennero abbandonati a morire da soli attorno al cadavere dal grosso dei difensori, che si dispersero lasciando il campo. Erano servi e fittavoli arruolati per l’occasione, indifferenti a quale padrone avrebbe esercitato il potere su di loro dopo il conflitto. I vichinghi erano invece uomini liberi, animati da uno spirito di preda e conquista comune, oltre che dalla prospettiva di arricchirsi attraverso il successo negli scontri.
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