Antonia Pozzi se ne andò nella neve in una mattina di inizio dicembre. Si distese nel bel manto candido e ingoiò una manciata di pasticche. Per il suo eterno riposo aveva scelto la neve come culla, lo stesso elemento che imbiancava le cime delle sue amate montagne in cui aveva intravisto, da viva, un presagio di salvezza.
Morì a soli ventisei anni la “più grande poetessa del nostro Novecento”, come l’aveva definita Eugenio Montale. Non aveva ancora pubblicato nulla in vita, solo disseminato la sua anima in una pluralità di versi, impressioni, fitte pagine di diario che ci svelano il suo sguardo curioso, malinconico, vorace che amava ogni cosa del mondo eppure da quel mondo si sentiva invincibilmente escluso.
Il proprio posto nel mondo Antonia Pozzi l’aveva trovato in cima alle sue montagne, nella solitudine inspiegabile delle vette che tendevano verso il cielo. Lì si sentiva a casa, come testimoniano i suoi diari: quei luoghi erano affini al suo paesaggio mentale. Tornando indietro nel tempo, prima della sua tragica fine, possiamo ritrovare una ragazza giovane e spensierata che scalava le cime dei monti e sorrideva, inebriata, una volta conquistata la vetta. In una lettera, datata agosto 1929, raccontava all’amata nonna Maria Gramignola la sua prima scalata. Sono parole che, se lette ad alta voce, sembrano una poesia e raccontano “l’ebbrezza folle” di un’esperienza indimenticabile. C’è anche l’ardore della giovinezza in queste frasi e la meraviglia piena di uno sguardo pronto a stupirsi per ogni cosa.
La montagna è una palestra insuperabile per l’anima e per il corpo. Nel salire, non si è che carne pieghevole e istinto felino aggrappati alla rupe pungente: a palmo a palmo, con l’arcuata tensione delle dita, con la piatta aderenza delle membra, si guadagna la roccia. E poi, in vetta, quando ti vedi intorno un anfiteatro di guglie e di ghiaccio, un’ebbrezza folle t’invade e l’adorazione selvaggia della tua fragilezza ardente che vince la materia. Eppure, là in alto, anche la materia, la colossale materia che ci attornia, non sembra inerte e ostile, ma viva ed amica.
Aveva soli diciassette anni Antonia, era già una poetessa senza saperlo. Il suo incontro rivelatorio con la montagna, che si trasfigura in luogo interiore e ideale, è racchiuso nella poesia Dolomiti.
La scrisse proprio a Madonna di Campiglio, in ricordo della sua prima scalata. Ne riportiamo testo e analisi.
Dolomiti di Antonia Pozzi: testo
Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.
Dolomiti di Antonia Pozzi: analisi e commento
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Dolomiti è il racconto poetico di una scalata. Nella poesia la giovane Antonia ci restituisce il suo sguardo che stupito osserva i sentieri innevati e poi, più su, l’anfiteatro di guglie dei monti. Le montagne appaiono agli occhi della ragazza come un’immensa cattedrale costruita dalla natura, un regno di neve e ghiaccio che diventa emblema stesso della poesia.
Le montagne sono la rappresentazione della vastità del sentire umano, di quel contatto con l’infinito che Antonia anelava e costantemente ricercava attraverso la scrittura. Non a caso sin dall’incipit del componimento la poetessa specifica che non si tratta di monti, ma di “anime di monti” conferendo da subito alle montagne un connotato spirituale.
Prosegue poi descrivendo l’avventura dello scalatore, ma al plurale come se descrivesse l’impresa di una cordata oppure un sentire condiviso. Antonia racconta la fatica della scalata che si traduce in sofferenza fisica, in dita piegate ad avvinghiare la roccia, nel corpo che molle si piega sotto la pressione e lo sforzo. Ma gli scalatori proseguono la loro avventura spinti dal desiderio di immenso che li travolge come l’ebbrezza di un ubriaco. Alle loro spalle la roccia sembra franare e piangere mentre si sgretola e muore. Antonia Pozzi percepisce la montagna come un organismo vivente che soffre e piange, percependo gli scalatori come degli usurpatori che la violentano.
Mentre lo sguardo si dischiude allo splendore della vetta e all’azzurra distesa di nontiscordardimé, si ode lontano il cupo lamento della terra. Raggiungere la cima produce un sentimento estatico, di adorazione folle e selvaggia: Antonia percepisce la propria fragilità umana a contatto con la materia immortale, granitica delle rocce che d’improvviso non le sono più ostili e le diventano amiche.
La visione di Antonia si fa trascendente: il profondo sentire della poetessa le fa percepire il dolore della montagna, il suo pianto che non si vede. C’era un insegnamento prezioso racchiuso tra quelle rocce che Antonia Pozzi trascrive in una lettera all’amica Elvira:
Che la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi.
La montagna nella poesia di Antonia Pozzi diventa un riflesso dell’anima, di quella “volontà d’ascesa” che febbrilmente la animava. Rappresentavano il punto di contatto con l’infinito, l’approdo estremo del viandante solitario o dell’alpinista temerario.
In essa è racchiuso il sogno cantato in poesia da Antonia, il desiderio di liberarsi dagli impacci e dai limiti di un corpo che diventava prigione di uno spirito infinito. Come scrisse: “Oggi mi inarco nuda nel nitore”. In quel candore si sarebbe smarrita con il suo canto d’addio. Lei che in fondo era stata la poetessa della neve, alla neve sarebbe tornata con passi lievi smarriti nel sogno.
Proprio a Pasturo, sulle sue amate montagne, Antonia Pozzi è stata sepolta come a suggellare un legame eterno. La poetessa aveva fatto dei monti l’emblema della sua ricerca interiore - la scalata della vetta divenne metafora di vita - una ricerca estrema che infine coincise con l’annullamento.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Dolomiti”: la poesia di Antonia Pozzi dedicata all’anima delle montagne
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