

Il titolo Alla Primavera, o delle Favole antiche, già di per sé anticipa il contenuto e sintetizza il significato della celebre canzone composta da Giacomo Leopardi all’inizio dell’anno 1822 a Recanati.
In essa l’autore affronta la tematica assai cara della disillusione che scaturisce dalla conoscenza del vero, già affrontata nel 1818 nell’altrettanto famoso Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.
Alla primavera intesa non solo come stagione ma anche, in senso metaforico, come inizio della storia umana, si contrappone l’amara constatazione dell’impossibilità di poter tornare alla felice incoscienza propria di quell’epoca lontana.
A differenza della natura, che ogni anno, nell’ambito di una ciclicità perenne e perfetta, si rinnova, per gli esseri umani la primavera non potrà mai più tornare.
Vediamo testo, parafrasi e la spiegazione di Alla Primavera, o delle Favole antiche ( Canti, VII).
“Alla Primavera, o delle Favole antiche”: testo del canto di Giacomo Leopardi
Perché i celesti danni
ristori il sole, e perché l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s’avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d’amor desio, nova speranza
Ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l’atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch’amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D’immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l’ardue selve (oggi romito
Nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea de’ fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d’agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l’onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.Vissero i fiori e l’erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell’umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de’ mortali
Pensosa immaginò. Che se gl’impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l’onte,
Gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l’esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
Pianger credè la sconsolata prole
Quel che sommerse in Eridano il sole.Né dell’umano affanno,
Rigide balze, i luttuosi accenti
Voi negletti ferìr mentre le vostre
Paurose latebre Eco solinga,
Non vano error de’ venti,
Ma di ninfa abitò misero spirto,
Cui grave amor, cui duro fato escluse
Delle tenere membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi,
Le non ignote ambasce e l’alte e rotte
Nostre querele al curvo
Etra insegnava. E te d’umani eventi
Disse la fama esperto,
Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando,
E lamentar nell’alto
Ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
Antichi danni e scellerato scorno,
E d’ira e di pietà pallido il giorno.Ma non cognato al nostro
Il gener tuo; quelle tue varie note
Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
Men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote
Son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
Per l’atre nubi e le montagne errando,
Gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
In freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
Il suol nativo, e di sua prole ignaro
Le meste anime educa;
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de’ mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
E se de’ nostri affanni
Cosa veruna in ciel, se nell’aprica
Terra s’alberga o nell’equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno.
Alla primavera o delle favole antiche: la parafrasi
Per il fatto che il sole ponga rimedio ai danni provocati dal cielo invernale, e nonostante il vento primaverile restituisca vitalità all’aria insalubre, per cui, messa in fuga e dispersa, l’ombra soffocante delle nuvole scende a valle; (nonostante) gli uccelli affidino al vento il loro debole petto, e la luce del giorno infonda una nuova speranza e un nuovo desiderio di amore agli animali spinti (verso la vita e l’amore) in mezzo ai boschi attraversati da essa e tra le nevi sciolte; forse agli animi umani, stanchi della vita e schiacciati dal dolore, torna l’età lieta (la fanciullezza), che la sofferenza e la luce tenebrosa (della conoscenza) del vero distrussero prematuramente? I raggi del sole non sono ancora bui e spenti per sempre per chi è infelice? Ed ancora, primavera piena di profumi, restituisci la vita e stimoli questo cuore ghiacciato, questo cuore che in piena gioventù ha conosciuto la vecchiaia?
Tu sei viva, adorata natura? Sei viva, e l’orecchio mio non più abituato riceve la tua voce come se fosse quella di una madre? Un tempo i fiumi furono una dimora di ninfe dalla pelle bianca, le limpide fonti furono una casa tranquilla e uno specchio. Misteriose danze eseguite dai piedi di creature divine fecero risuonare le pareti scoscese e le foreste inaccessibili (che oggi sono un luogo solitario pieno di venti); e il pastorello, che portava le giovani pecore assetate alle ombre instabili del mezzogiorno e alle rive dei fiumi traboccanti di fiori, sentì lungo le rive risuonare l’acuta melodia delle divinità dei campi; e vide l’onda tremare, e si stupì, perché la dea con la faretra (Artemide) invisibile allo sguardo, scendeva tra le onde calde, e lavava i suoi fianchi candidi come la neve e le virginee braccia dalla sporca polvere rimasta della caccia sanguinosa.
Un tempo i fiori, le piante e i boschi furono creature viventi. I venti vagabondi, le nuvole e il sole furono consapevoli del genere umano, nel tempo in cui il viaggiatore seguendoti, limpida luna, con gli occhi vigili nella notte silenziosa, ti credeva una compagna di viaggio e interessata agli uomini. E se qualcuno, allontanandosi dalle relazioni corrotte e dagli odi e dalle umiliazioni mortali della società cittadina, da solo nei meandri profondi delle foreste strinse al petto i tronchi (degli alberi) appuntiti, si convinse che un calore pieno di vita smuovesse le vene senza sangue degli alberi, che le foglie respirassero, e nell’abbraccio carico di dolore credette che Dafne o la triste Fillide respirassero prigioniere dentro quell’albero, o credette che le figlie in lutto di Climene piangessero colui che il Sole fece cadere nel Po (Fetonte).
E i lamenti umani furono sentiti anche da voi, rupi scoscese dei monti, finché la solitaria Eco - non un effetto ingannevole del vento ma lo spirito di una ninfa addolorata - abitò le vostre paurose caverne, (una ninfa) che un amore infelice, un destino crudele scacciò dal suo corpo delicato. Lei, vagando per grotte, per pareti rocciose e luoghi deserti, ripeteva verso il cielo i lamenti umani immensi e ansimanti, che anche lei conosceva. E la comune credenza ti considerò un conoscitore delle umane vicende, uccello melodioso (usignolo) che adesso nel bosco verdeggiante vieni a cantare (annunciare) la stagione che rinasce (la primavera), e si convinse che tu, nella pace profonda dei campi, nel cielo silenzioso e oscuro, ti lamentassi di vecchie disgrazie e di una turpe vendetta, e di quel giorno in cui il sole impallidì per la rabbia e la pietà.
Ma la tua specie non è dello stesso sangue della nostra (non è come la nostra); non è il dolore a dar vita alle tue ricche melodie, e la valle oscura ti nasconde, ora che sei innocente, sei molto meno caro (agli esseri umani). Ahi ahi, dopo che l’Olimpo si è svuotato ( nel senso che la religione pagana è scomparsa), e il tuono, vagando casualmente tra le nuvole cupe e le montagne, paralizza di orrore agghiacciante l’animo degli innocenti così come quello dei colpevoli; e dopo che la terra da cui nascono gli uomini, estranea a loro e inconsapevole dell’esistenza dei suoi figli, fa crescere il dolore negli animi; tu, bella natura, ascolta le disgraziate angosce e gli immeritati destini degli uomini, e restituisci alla mia anima il calore vitale di una volta, se almeno tu sei viva, e se nel cielo o nella terra illuminata dal sole o nel fondo del mare esiste una creatura che sia non dico pietosa, ma almeno testimone del nostro dolore (del dolore degli esseri umani).
Struttura metrica
Alla Primavera o delle Favole antiche è una canzone petrarchesca composta da cinque strofe (o stanze) di 19 versi ciascuna, con lo schema aBCDbEFGHGiKlMNoMPP, ovvero 8 versi rimati due a due e 11 versi sciolti.
Spiegazione del testo: il crollo delle illusioni e la felicità impossibile
Attraverso la rievocazione e la spiegazione della nascita del mito classico, in Alla Primavera o delle Favole antiche Leopardi affronta poeticamente il tema filosofico dell’illusione e dell’immaginazione come uniche fonti di felicità, in contrapposizione alla scoperta della verità, da cui scaturisce l’inevitabile dolore della condizione umana.
Tale celebrazione, inserita nel presente contesto della primavera che sopraggiunge a risvegliare la natura addormentata dai rigori dell’inverno, offre al poeta un’occasione di riflessione, nonché di rimpianto, per un’epoca ormai passata e irripetibile in cui l’uomo viveva in totale e perfetta armonia con la natura seguendo i dettami dell’antica religione dei miti spazzata via dalle nuove conoscenze e dal progresso.
La primavera assume un duplice significato metaforico: in quanto stagione che segna il ritmico ridestarsi della natura, essa simboleggia storicamente l’età primitiva, dal punto di vista umano, invece, rappresenta la fanciullezza.
La fine del mito o delle "favole antiche": Filomela e il canto dell’usignolo
Il termine "Favole" utilizzato nel titolo della canzone e per di più enfatizzato dalla lettera iniziale in maiuscolo, è da intendere nell’accezione latina di "fabula" (fabulae), dal verbo for-faris, ovvero "comunicare".
Nell’opera l’autore sottolinea come dopo il crollo delle credenze arcaiche, la ricerca del piacere sia, per gli umani, destinata inevitabilmente a fallire.
Per illustrare la morte del mito Leopardi ricorre alla leggenda di Filomela, la bella e giovane principessa che dopo aver subito violenza venne trasformata in un usignolo.
Anticamente si riteneva che il canto melodioso del grazioso uccellino, memore dell’oltraggio ricevuto, esprimesse dolore per la triste condizione umana, come se attraverso di esso il creato se ne rendesse partecipe, ma poi la scienza, dimostrandone l’assoluta fallacia, ha spazzato via tale convinzione e, con essa, ogni illusione su qualsiasi eventuale coinvolgimento della natura nelle nostre sofferenze.
Essa, cieca e sorda, è del tutto indifferente ai destini degli uomini e "... Poscia che vote / son le stanze d’Olimpo ...", questa nuda e cruda verità è divenuta tanto più evidente quanto incontrovertibile.
L’unica certezza che resta, per tutti, giusti e ingiusti, è il Nulla della morte.
Dinanzi all’amarezza della realtà che ci circonda e quasi ci opprime, un Leopardi fortemente seppur inconsapevolmente romantico trova un antidoto nel recupero dell’illusione, intesa come la capacità delle "favole antiche" di metterci in comunicazione con la natura, a cui rivolge l’accorata supplica che chiude la canzone.
La supplica alla natura e il rimpianto per la perduta gioventù
Il tentativo di instaurare un dialogo con la natura e il rimpianto per la passata gioventù, chiudono la canzone con due temi classici della poetica leopardiana.
Nell’ultima strofa, attraverso il recupero della fabula e quindi dell’illusione, l’autore ristabilisce, o prova a farlo, quella comunicazione con la natura che la modernità sembrava avere interrotto per sempre.
Leopardi le si rivolge direttamente, fiducioso che possa in qualche maniera ascoltarlo e persino esaudirlo.
In effetti, qui la natura appare distaccata, ma non cinica e crudele come in altri componimenti: "O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?" ( A Silvia, 1828).
Evidentemente, in un remoto angolo di se stesso, il poeta cova ancora la speranza che una pur flebile comunanza fra noi e l’universo possa esserci e che sulla terra, in cielo o nelle acque del mare esista qualcosa di vivo in grado di squarciarne l’apparente imperturbabilità, forse, aggiunge Leopardi, se non tanto da renderlo interessato, almeno spettatore dei nostri tormenti.
Chissà che la natura, in fondo, non possa, di tanto in tanto, degnarci di uno sguardo.
Quando il recanatese la prega di restituirgli l’ardore della giovinezza, infine, si riferisce essenzialmente al recupero della capacità di immaginare e di sognare tipica del ragazzo e destinata a perdersi con il passare degli anni.
Solo nell’incoscienza dell’infanzia si può essere felici, prima che la consapevolezza dell’età ci ponga inesorabilmente di fronte all’insensatezza della nostra condizione.
Il ritorno alle favole antiche è l’unico antidoto che l’umanità ha a disposizione contro l’infelicità alla quale è condannata, così come l’attitudine fanciullesca a fantasticare è la sola risorsa a cui poter attingere da adulti per lenire le sofferenze che la vita riserva a ciascuno di noi, nessuno escluso.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Alla Primavera, o delle Favole antiche”: il canto di Leopardi su disillusione e dolore della condizione umana
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Giacomo Leopardi Poesia Storia della letteratura News Libri
Lascia il tuo commento