[Nella fotografia: statua del nazionalista basco Sabino Arana.]
Da anni il futuro incerto dell’Unione Europea è un tema molto dibattuto; questa entità politica si è affacciata al nuovo millennio come il superamento dei nazionalismi, ma, avendo rifiutato di includere tra i suoi pilastri fondativi le radici spirituali del continente, essa non sembra in grado di plasmare un suo universalismo credibile. Agli occhi di un osservatore esterno, la retorica che caratterizza l’UE sembra semplicemente la somma dei vaghi ideali progressisti attualmente imperanti in buona parte del mondo: idee non dissimili da quelle che circolano tra i liberal negli Stati Uniti, e che non rappresentano in alcun modo una peculiarità della “cultura europea”.
A fronte della presunta sconfitta imminente delle divisioni nazionali, però, non sembra voler andare in pensione un neologismo che, senza porsi troppe domande, utilizzano in tanti: “etnonazionalismo”. Di cosa si tratta?
È noto che tra gli europeisti c’è chi vede nel tramonto degli stati nazionali l’alba dei nuovi stati etnici di dimensioni ridotte: in sintesi, coloro che condividono questa opinione politica sono etnonazionalisti.
A parere di chi scrive manca ancora una definizione univoca del termine etnonazionalismo, e il presente articolo nasce dal desiderio di proporre una corretta interpretazione del significato del vocabolo, con un’analisi ragionata del fenomeno che questa etichetta identifica.
I nazionalismi classici
Per comprendere cosa sia un etno-nazionalismo, da principio, è indispensabile chiarire cos’è il nazionalismo, e riassumere brevemente la storia e i cardini ideologici di questa corrente di pensiero.
Il termine nazionalismo fu impiegato per la prima volta verso il 1770, dal filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (1744-1803), che riconosceva nella lingua “l’anima di un popolo”, ma l’idea moderna di nazione si affermò solo con la rivoluzione del 1789. I repubblicani francesi adottarono il principio della lingua nazionale come cemento per lo stato unitario e, con una serie di decreti, decisero di mettere al bando l’utilizzo dei dialetti nella quotidianità, imponendo la lingua ufficiale come simbolo dei valori rivoluzionari (libertà, fraternità e uguaglianza) e della repubblica “unita e indivisibile”. Da quel momento in avanti, quindi, la lingua iniziò a imporsi con un peso sempre maggiore come elemento per conferire a un gruppo umano lo status di nazione.
In questa sede è impossibile riassumere la storia dell’evoluzione dei significati attribuiti alla parola nazione, ma va ricordato che nei governi di antico regime questo termine poteva essere impiegato con valenze diverse tra loro. La rivoluzione francese creò le idee astratte della patria repubblicana e della patria nazionale, destinate a sostituirsi all’idea tradizionale della patria concreta. Questo aspetto va sottolineato con decisione: il nazionalismo nasce rivoluzionario, non è un figlio dell’antico regime.
Le istanze nazionali e le aspirazioni d’indipendenza non furono prese in considerazione durante il Congresso di Vienna, e la Restaurazione non le ha soppresse. Anzi, all’inizio dell’Ottocento, con l’affermazione del movimento culturale del Romanticismo, prese corpo in maniera ancor più definita il nuovo concetto di nazione, fondato sull’idea che un popolo dovesse autocostituirsi come nazione quando contraddistinto da un’unità linguistica, culturale ed “etnica”. Lo stato, perciò, non doveva più coincidere con il dominio di un principe, di un’aristocrazia o di un governo stabiliti dalla Provvidenza con dei doveri di natura religiosa nei confronti dei loro sudditi, bensì doveva sorgere dalla “volontà superiore” e dall’autocoscienza dei cittadini, educati all’unità da vecchi miti fondativi e nuove narrazioni romantiche, e accorpati in un unico soggetto: il popolo.
Le monarchie tradizionali erano solite utilizzare l’espressione “popoli” per riferirsi ai loro sudditi, ma ciò non poteva più essere accettato dai propugnatori della nuova idea di nazione, corrispondente a una concezione non più plurale di popolo, ma singolare.
Nell’Ottocento, sembravano terminati per sempre i tempi in cui Stefano I D’Ungheria (969-1038) – che pure fu l’unificatore dei magiari – insegnava che “il regno che possiede una sola lingua e da per tutto i medesimi costumi è debole e caduco”. Per molti intellettuali, l’appartenenza alla nazione era ormai il valore supremo, superiore anche alla fede religiosa, che prima della rivoluzione francese era invece il fattore determinante nel senso di appartenenza degli individui a una comunità e a uno stato. Il nazionalismo panslavista, ad esempio, si pose l’obiettivo di unire tutti gli slavi superando ogni divisione di culto.
I nazionalisti non sono necessariamente irreligiosi, ma storicamente, quando non hanno osteggiato la religione o non hanno tentato di sostituirla con una nuova “religione civile”, l’hanno strumentalizzata; i nazionalismi sono naturalmente in contrasto con l’universalismo cristiano.
Il nazionalismo in cui la religione ricopre il ruolo più importante è senza dubbio il Sionismo, ma esso è palesemente un caso a sé stante, in ragione dell’assoluta centralità che riveste l’Ebraismo nell’autoidentificazione del popolo ebraico.
Nelle scuole italiane, spesso, per spiegare cosa sia il nazionalismo lo si contrappone al patriottismo, ripetendo una semplice riflessione che ormai è praticamente diventata una frase fatta:
“Il patriota ama la sua terra, mentre il nazionalista considera la sua nazione superiore alle altre”.
In sé, tale sentenza non è del tutto errata: Papini in Vecchio e nuovo nazionalismo (1914) affermò proprio che “non si vive veramente che contrapponendosi ad altri”. Eppure non è un ragionamento esaustivo, e inoltre, da solo, può pure creare confusione. Il nazionalismo non è solo una forma di suprematismo culturale, cioè il sentimento di un gruppo di persone che si riconoscono come appartenenti a una nazione (intesa nel senso moderno del termine) ed esaltano la loro nazione al di sopra delle altre. Il nazionalismo è anche l’ottica secondo cui le origini delle qualità storiche e culturali di un popolo sono riconducibili a dei caratteri etnici.
Queste visioni escludenti del mondo e dell’umanità portano a dividere i popoli, e si esprimono nell’individuazione di nemici esterni e interni, ossia tutti coloro che per lingua, storia e cultura si discostano dai caratteri distintivi della nazione. Nel nazionalismo convivono il desiderio di conquistare territori “irredenti” e l’odio per ogni tipo di regionalismo, di localismo e di municipalismo (che è il patriottismo municipale). Il nazionalismo rivolge difatti la sua carica oppressiva anche, e soprattutto, verso l’interno, cercando di annullare tutte le peculiarità provinciali che possono risultare “scomode” per il consolidamento dell’immagine di una nazione etnicamente omogenea.
A fine Ottocento i nazionalismi si affermarono definitivamente come partiti di massa, il culto della nazione sostituì quel Dio di cui Nietzsche annunciò la morte, quel Dio che nel medioevo cristiano era stato al centro della vita dell’uomo. L’esplosione dei nazionalismi nel XIX secolo, di conseguenza, rappresenta un ulteriore affondo contro gli ideali su cui si erano retti gli stati cattolici, ancora difesi dai cristiani non liberali (legittimisti e intransigenti), che non accettavano di scendere a patti con i principii della rivoluzione.
Un altro errore abbastanza comune è quello di associare il nazionalismo esclusivamente al ridotto ambito dei pensatori antidemocratici e dei movimenti di estrema destra; in realtà il nazionalismo non coincide automaticamente con il rifiuto della democrazia, ma anzi, sono esistiti ed esistono nazionalisti di sinistra, non conservatori, democratici, socialisti, progressisti o anche comunisti. Per citare un caso a noi vicino, alcuni esponenti del risorgimento italiano possono essere pienamente definiti nazionalisti, ma contemporaneamente costoro erano anche sostenitori della sovranità popolare, liberali o radicali.
Come è già stato spiegato, il nazionalismo è generalmente avversario del principio cattolico della sussidiarietà, preferendo a esso il centralismo e l’accentramento, non solo sul piano politico, ma anche su quello identitario, linguistico e culturale. La nazione teorizzata dai nazionalisti è portatrice di un’idea di popolo monolitica, essi guardano con sospetto ogni specificità. La loro nazione è un moloch che inghiotte tutto, e cerca di omologare quasi ogni aspetto della cultura presente in un dato territorio.
L’etnonazionalismo
Dopo aver elencato sommariamente i punti principali che connotano un nazionalismo, si può passare al tentativo di dare un significato alla parola etnonazionalismo. A parere di chi scrive, la definizione fornita dalla Treccani (Neologismi, 2008) è incompleta: se si accetta che l’etnonazionalismo è il “Nazionalismo etnico, che fa proprie e rivendica le tradizioni di un gruppo etnico, di un popolo” allora esso non presenta alcuna differenza rispetto al nazionalismo classico, poiché tutti i nazionalismi sono "etnici".
La voce enciclopedica cita però la Lega Nord, e questo è un dato significativo: nel contesto italiano, la stampa utilizza la parola etnonazionalismo per riferirsi ai secessionismi regionali. Ecco quindi che l’etnonazionalismo si configura come un “nazionalismo in piccolo” – un nazionalismo, cioè, nato a livello regionale in risposta a un nazionalismo più ampio, quello di uno stato-nazione. Nel panorama italiano il nazionalismo sardo, quello siciliano e il Padanismo della vecchia Lega rappresentano tre esempi di etnonazionalismo.
Ponendosi come obiettivo la secessione, al fine di minare l’unità d’Italia, questi movimenti hanno sempre cercato di criticare il risorgimento, utilizzando talvolta richiami a realtà pre-unitarie e d’antico regime, appropriandosi perlopiù di discorsi formulati dalla storiografia cattolico-reazionaria ottocentesca, miscelando così spunti rivoluzionari e controrivoluzionari. Tuttavia, essi non hanno nessun collegamento effettivo con il legittimismo (nemico storico del nazionalismo). Già il legittimista borbonico palermitano Vincenzo Mortillaro (1806-1888) aveva compreso che gli autonomisti siculi non avevano niente a che spartire con i nostalgici del Regno di Sicilia.
Non possono invece essere considerati etnonazionalisti, ad esempio, i secessionisti del Südtirol che mirano a ricongiungere il loro territorio al mondo germanico e a riunificare le province della vecchia Contea del Tirolo.
La discriminante è questa: il nazionalismo classico ha rivendicato, o rivendica, l’indipendenza di una nazione rispetto a uno stato plurinazionale (o, per usare un termine tendenzialmente dispregiativo, sovranazionale) come lo erano i grandi imperi, mentre l’etnonazionalismo desidera costruire una nazione separata frantumando uno stato nazionale, e rivendica l’indipendenza di un (neonato) gruppo etnico rispetto a uno stato-nazione già esistente.
I fautori dell’etnonazionalismo possono attuare queste strategie senza alcun problema, poiché le nazioni teorizzate nell’Ottocento non sono prodotti “naturali” delle culture umane (come si era cercato di far credere a suo tempo), bensì costruzioni astratte, frutto delle elaborazioni di scrittori romantici, poeti, politici e combattenti: creare una nuova nazione servendosi di manipolazioni storiche e culturali (strategia niente affatto estranea ai nazionalismi classici) non è un processo impossibile.
L’etnonazionalismo non deve perciò essere confuso col semplice campanilismo – termine italiano, che indica un comportamento tipicamente italiano – il quale è un fenomeno di portata municipale o provinciale, prodotto deteriore degli orgogli cittadini. I campanilismi erano già ampiamente presenti negli stati di antico regime, essi sono nati assai prima del nazionalismo, e soprattutto dell’etnonazionalismo, che è una dottrina ancor più recente.
L’etnonazionalismo, per altro, si oppone al municipalismo e agisce localmente come un nazionalismo su scala ridotta, diffondendo tra le masse la medesima affermazione autoritaria di valori, modelli e riti propria delle narrazioni nazionaliste. Fedeli all’assunto secondo cui un popolo esiste se si differenzia per ragioni linguistiche, gli etnonazionalisti trasformano la lingua “locale” in un feticcio e cercano soventemente di imporne una versione standard che dovrebbe cancellare le altre varianti, sovrastarle o “regolarizzarle”.
A differenza della maggior parte dei nazionalisti, nel nostro continente, gli etnonazionalisti sono spesso europeisti, perché di fatto essi ritengono che l’Unione Europea possa offrirgli una sponda per compiere la secessione, con la graduale creazione di una federazione che cambi i confini tra gli stati membri. Invero, al momento, questa mossa politica non si è rivelata né vincente, né utile, e a oggi l’UE non ha ancora appoggiato alcun secessionismo entro i suoi confini; va comunque notato che gli etnonazionalisti sono riusciti almeno ad attirarsi le simpatie di una porzione dei progressisti europei, che si mostrano talvolta disponibili a giustificare o a dare credito al nazionalismo dei popoli in “lotta per la libertà e l’indipendenza” (anche se si tratta quasi sempre di machiavellismo geopolitico, o di fascinazioni romantiche passeggere fuori tempo massimo).
Il caso spagnolo: l’etnonazionalismo basco e catalano come degenerazioni del Carlismo
Gli etnonazionalismi della penisola iberica costituiscono un caso esemplare per riflettere sul tema che abbiamo cercato di approfondire, meditare sulla loro parabola storica è molto utile.
Per capire come sono nati i movimenti secessionisti che ancora oggi minacciano l’unità della Spagna bisogna possedere una conoscenza quantomeno basilare delle vicende del Carlismo, un movimento politico e dottrinale cattolico a cui chi scrive ha già dedicato un articolo pubblicato in questo portale: Il Carlismo, ossia il tradizionalismo spagnolo (a cui si può rimandare per evitare ripetizioni superflue).
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Il Carlismo, ossia il tradizionalismo spagnolo
Nell’Ottocento spagnolo il Carlismo non si è posto come un partito sorto banalmente per difendere i diritti dinastici di un pretendente al trono, ma ha rappresentato sin da subito l’incarnazione di tutti i valori della Spagna tradizionale, cristiana e retta da una monarchia organica e rispettosa delle antiche autonomie regionali, vale a dire i fueros: le libertà e le leggi dei diversi regni che costituiscono la “federazione storica delle Spagne” (si noti il plurale).
Antiassolutista, antinazionalista e antisocialista, il Carlismo superò per profondità tutti i movimenti legittimisti europei, sviluppando un sistema di pensiero completo. Seguendo il suo programma “Dios, Patria, Fueros y Rey”, esso si presentò anche come il difensore dell’identità plurale ispanica, aggredita dal centralismo dei liberali. Sotto le sue bandiere militarono i baschi e i catalani, che non volevano rinunciare a nessun costo ai loro fueros e alla loro cultura, tutelati dal foralismo e dal legittimismo carlista. Essi dimostrarono la loro fedeltà ai re proscritti in tutte e tre le carlistade: la prima, combattuta tra il 1833 e il 1840, la seconda, svoltasi negli anni che vanno dal 1846 al 1849, e l’ultima, durata dal 1872 al 1876.
Nei Paesi Baschi – regione allora fortemente cattolica – il tradizionalismo
“significava da una parte il soccorso […] alla religione, minacciata da misure quali l’incameramento e la vendita dei beni ecclesiastici, la persecuzione dei religiosi e l’introduzione del matrimonio civile” scrive Claudio Meli, “[e] dall’altra la difesa dei fueros, cioè i diritti fondati dalle finalità proprie delle comunità (naturali o volontarie) e sanciti nel loro carattere consuetudinario dal legislatore, contro l’uniformazione liberale” (I Paesi Baschi dal Carlismo al separatismo, in «Il settimanale di Padre Pio», n.° 35, 9 settembre 2018, pp. 29-31).
In nessun paese d’Europa si delineò un’alternativa ideologica alla rivoluzione più elevata ed esaustiva di quella offerta dai carlisti; i Paesi Baschi divennero una roccaforte dei seguaci di Don Carlos e il Carlismo catalano, dalle sue origini, ha sempre riconosciuto e accettato le diversità dei popoli ispanici (cfr. Javier Barraycoa, El Carlismo Catalán, in A los 175 años del Carlismo, Itinerarios, Madrid 2011, pp. 105-115). Ciononostante, a seguito della sconfitta di Carlo VII (1848-1909) nella terza guerra carlista nel 1876, tra alcuni baschi e catalani che erano stati vicini al Carlismo iniziarono a serpeggiare sentimenti micro-nazionalisti, anti-spagnoli e secessionisti, che andavano ben oltre il federalismo. Secondo taluni scrittori di queste province, i popoli spagnoli avrebbero dovuto intraprendere una loro guerra separata contro il governo nazionalista e centralista di Madrid, non più per riottenere le loro autonomie legittime e giuste, ma per la divisione dello stato, in nome di nazionalismi più piccoli e appena inventati. I carlisti si trovarono ad avere dei nuovi nemici giurati: in Spagna erano nati gli etnonazionalisti.
Quintessenza dell’Hispanidad, il Carlismo prese immediatamente le distanze dai separatisti, ma non si può negare che l’indipendentismo basco abbia una remota impronta cattolica: Sabino Arana (1865-1903), colui che nel 1893 iniziò a plasmare questo secessionismo e che il 31 luglio 1895 fondò il Partito Nazionalista Basco (PNV), era figlio di una famiglia carlista. Nei suoi scritti, Arana collocò la patria non più nell’orizzonte della tradizione (intesa dal Carlismo come processo di trasmissione e miglioramento del sapere tra le generazioni), bensì nella dimensione della razza. Dopo di lui l’indipendentismo basco slittò dal Cristianesimo verso la rivoluzione e il progressismo, arrivando a contestare persino l’identità cattolica delle Spagne, poiché elemento imprescindibile dell’unità storica del paese.
I successori dello scrittore, i dirigenti del PNV, patteggiarono con la repubblica laicista uno statuto autonomo, e durante la guerra civile (1936-1939) si poté assistere allo scontro armato tra i baschi rimasti carlisti e i separatisti.
Assai più recenti per l’italiano medio sono invece i clamori suscitati dai secessionisti catalani; negli scorsi decenni, il loro fronte si è fatto forza coalizzando gli indipendentisti di destra e di sinistra, e divulgando mistificazioni della storia incentrate sulla superiorità e i primati della cultura catalana. Secondo i demagoghi del separatismo, persino Leonardo da Vinci e Cristoforo Colombo erano catalani, e la Catalogna avrebbe altresì dato alla storia della filosofia un contributo superiore a quello della Grecia antica! Il risultato finale di questa accozzaglia è un grande minestrone in cui femminismo, conservatorismo, anarchismo (!), socialismo, culto della democrazia diretta e altro ancora si mescolano, seppur con fatica. L’unico argomento che non trova posto in questo fantasioso pasticcio identitario è la storia autentica del legame tra il popolo catalano e il Carlismo: ricordare i tempi in cui una parte consistente della popolazione parteggiava per il legittimo Re di Spagna potrebbe risultare imbarazzante per i propagandisti della secessione da Madrid (che sono per giunta antimonarchici).
Attraverso gli anni, a dispetto delle loro imprevedibili mutazioni, però, gli etnonazionalisti baschi e catalani non hanno mai abbandonato atteggiamenti e politiche dal sapore smaccatamente razzista. Provoca un certo stupore, tra l’altro, notare come oggi nei centri sociali italiani sventolino le bandiere dei sopracitati gruppi ultranazionalisti, affiancate magari a slogan contro la discriminazione razziale e canzonette inneggianti al cosmopolitismo. Tutto fa brodo!
Il vessillo della Catalogna è la Senyera: quattro fasce rosse su sfondo giallo che simboleggiano le dita che, secondo la leggenda, Carlo il Calvo (823-877) intinse nel sangue e poggiò sullo scudo dorato di Goffredo il Villoso (840 ca.-897), ormai prossimo alla morte, durante un attacco musulmano. Ma ai catalanisti contemporanei va bene un po’ tutto pur di distruggere la Spagna, compresa una possibile invasione musulmana e il rischio di portarsi in casa il terrorismo jihadista.
La sinistra radicale catalana ha infatti varato una serie di misure tese ad allontanare gli immigrati ispanofoni favorendo invece quelli provenienti dai paesi islamici, poiché questi ultimi sono più propensi ad apprendere la lingua catalana e ad avvalorare (temporaneamente) i dogmi dell’etnonazionalismo, dando man forte alla marginalizzazione del castigliano: è un’altra dimostrazione di come per i nazionalisti il feticcio della nazione sia più importante della religione (nonché, probabilmente, del buonsenso).
Grandi o piccoli, i nazionalismi sono tutti pericolosi nella stessa misura.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cos’è l’etnonazionalismo? Una proposta di analisi osservando il caso spagnolo
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