Giovedì 23 dicembre 2021 è morta Joan Didion. Come si fa a parlare della morte di Joan Didion? Si ha l’impressione che nella frase stessa ci sia qualcosa di stonato, di contraddittorio, di inautentico. Il Saggiatore, la casa editrice che l’ha pubblicata in Italia facendone una delle sue autrici di punta, scrive sui canali ufficiali:
Continueremo a respingere la tua mortalità.
E con quella frase dà voce a tutti noi, o perlomeno, dà voce a noi lettori che cerchiamo di capacitarci di questa apparente antinomia: perché Joan Didion non può essere morta. Lei che la morte l’ha sempre sfidata in un corpo a corpo spietato, all’ultimo sangue, con la scrittura. Lei che della morte ci ha fatto percepire l’insignificanza, l’astrattezza, se posta in rapporto con i cortocircuti emozionali del ricordo.
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I suoi libri più noti sono proprio L’anno del pensiero magico (2004) e Blue Nights (2011) in cui racconta con struggente umanità eppure con un distacco voluto e necessario, l’elaborazione del lutto: la perdita del marito, John Gregory Dunne, e la morte prematura della loro figlia adottiva, Quintana Roo.
Attraverso la scrittura Joan Didion ci ha consegnato la sua fragilità, ben corazzata dietro un fiume di parole accuratamente strutturate, nella quale si coglie l’essenza più pura, il nocciolo fondante della sua individualità di essere umano.
Non c’è avvenimento della sua vita che Didion non abbia affidato alla scrittura: lei che ha raccontato fino in fondo le contraddizioni del suo paese, l’America; lei che ha narrato le sue origini, la sua biografia, attraverso il prisma della storia americana; sempre lei che racconta le sue esplorazioni per gli Stati Uniti setacciando crisi sociali e ideologiche attraverso la lente affinata del suo sguardo; lei che parla delle contraddizioni della politica sviscerandole fino all’osso; infine lei, che si spoglia persino dell’ultima armatura, mostrandoci il suo cuore martoriato dall’incapacità di accettare la morte del marito e compagno di vita, lo scrittore e sceneggiatore John Gregory Dunne, e dell’amata figlia Quintana.
La scrittura di Joan Didion
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Tutto questo è stata Joan Didion e anche molto di più. Le sue parole sembrano ancora uscire dalle pagine fitte, in cui sono stampate nere su bianco. Sono parole forti, parole che urlano, che scuotono le coscienze, che non lasciano indifferente, che si insinuano nella parte più profonda, intima, dei pensieri. È la sua voce che parla direttamente al lettore, lo artiglia, non gli lascia via di scampo: questo è il sortilegio di Joan Didion, la magia della sua scrittura, e quella magia non è venuta meno con la sua morte, come un incantesimo che perdura per l’eternità.
Si leggono i suoi libri e si sente la sua voce, che a volte colpisce come uno schiaffo poiché dice sempre le cose come stanno, senza inutili orpelli, senza indorare la pillola, senza manierismi. Ti sbatte tutto in faccia: l’amarezza, il dolore, la tragedia in tutta la sua devastante insensatezza, e al contempo ti racconta la gioia, la pienezza e la bellezza della vita, la passione e l’entusiasmo, facendoti battere il cuore al ritmo delle sue frasi. Questo vortice di sentimenti travolge il lettore ogni volta che apre un libro della Didion, proprio perché è lei che scrive e nessun altro. Il suo stile di scrittura è l’impronta della sua personalità.
Quando scrive Joan Didion sembra guardarti in faccia e darti del “tu”, è direttamente a te che parla e non molla la presa fino al punto finale della storia. “Scrivere è un atto ostile”, diceva e la sua prosa caustica, essenziale, riflette il suo comandamento.
Come lei stessa definisce nel saggio dedicato alla scrittura Let me tell you what I mean:
Scrivere è l’atto di dire Io, di imporsi sugli altri, di dire: ascoltami, guarda come guardo io, cambia idea. È un atto aggressivo, perfino ostile.
È esattamente quel che fa in tutti i suoi libri, nei suoi reportage, nei suo articoli e saggi brevi. Ogni volta è lei che parla e riduce il lettore al ruolo di ascoltatore passivo, lo soggioga e lo costringe a seguire il flusso inarrestabile dei suoi pensieri. Ancora oggi ogni frase della Didion sembra dire imperiosamente Ascoltami e di conseguenza respingere la fattualità della sua morte.
Joan Didion: icona letteraria e di stile
Lei che continua a fissarci con quello sguardo fisso e penetrante dalle foto in bianco e nero che la ritraggono come un’icona, bella di una bellezza particolare, di una bellezza intellettuale, una bellezza eterea e superiore. Raramente sorride in quelle fotografie, eppure sono diventate di culto. Lei un’icona di stile, malgrado non fosse mai stata un’appassionata di moda. Sempre lei che a ottant’anni posa per Céline negli eccezionali scatti di Juergen Tellerer: capelli grigi quasi bianchi, un viso rugoso coperto da occhiali da sole giganteschi che ci mostra la quintessenza minimalista di una femminilità moderna. Ha ottant’anni ed è ancora un volto da copertina, non necessita di alcun ritocco, è perfetta nella sua autenticità.
Joan Didion personificava la sua scrittura: non c’era alcun distacco tra la parola narrata e il suo essere, forse è stata proprio questa perfetta aderenza a farne la scrittrice più amata, idolatrata e imitata dal XXI secolo. E infine si è assicurata la sua immortalità senza bere alcun elisir di eterna giovinezza, ma attraverso l’unica arma a sua disposizione: la scrittura.
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L’ultimo suo libro pubblicato in Italia è stato, non a caso, il romanzo autobiografico Da dove vengo (2018) una colossale opera autobiografica cadenzata sulle note di una lucida nostalgia. In quelle pagine scriveva la storia della sua terra d’origine, la California, la storia della sua famiglia e, di fatto, la sua Storia con la esse maiuscola.
Joan Didion: la vita
Joan Didion nacque a Sacramento, in California, il 5 dicembre 1934. Ma la sua storia di scrittrice ebbe inizio all’età di cinque anni, come lei stessa racconta in Where I was from, quando la madre le regalò un quaderno bianco dalla copertina rigida nella speranza di tenerla occupata e renderla meno irrequieta. Su quelle pagine bianche la piccola Didion scrisse i suoi primi racconti, storielle fantascientifiche, raccontini ironici e divertenti. In seguito, sempre seguendo quella passione tenace per la scrittura, lascerà la natia California per iscriversi alla facoltà di letteratura dell’Università di Berkley.
Mentre frequentava l’università, su consiglio della madre, si iscrisse a un concorso letterario bandito dalla prestigiosa rivista Vogue .
E proprio lei Joan Didion, quella ragazza-un tempo bambina che scriveva sul grande quaderno dalla copertina rigida, lo vinse.
La vittoria del prestigioso Prix de Paris le assicurò un lavoro come assistente presso la prestigiosa rivista di moda Vogue a New York.
È questo il vero inizio della sua storia. Nel giro di due anni Joan Didion venne promossa dal ruolo di copywriter a quello di redattrice sotto la guida dell’editorialista Allene Talmey.
Nel 1961, sulla cover di Vogue è previsto un pezzo: Self respect, its source, its power. Joan Didion a ventisette anni venne chiamata all’ultimo minuto a coprire il vuoto lasciato dal collega che avrebbe dovuto occuparsene. Con un incipit folgorante Didion si prese senza indugio tutta la pagina.
Sulla copertina patinata di Vogue Joan Didion segnò la svolta inagurando la corrente innovativa del New Journalism: un pezzo nuovo e audace, un’impronta autoriale innovativa, un articolo diverso da tutto quanto era stato pubblicato fino ad allora sulla rivista. Per la prima volta Joan Didion fece sentire la sua voce, la sua scrittura dallo stile inconfondibile.
L’incontro tra Joan Didion e John Gregory Dunne
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Nel 1963 scrisse il suo primo romanzo, di forte stampo autobiografico, Run River. Il libro non fu un successo, tuttavia segnò il suo esordio come scrittrice.
In quegli stessi anni incontrò a New York John Gregory Dunne, redattore del TIME, che diventerà suo marito e compagno di vita.
Il loro fu un amore eterno, saldato da una profonda affinità intellettuale che tuttavia non impedì alcune crisi matrimoniali e momenti di cedimento, come accade in tutti gli amori veri e non artefatti. Joan Didion e John Dunne completavano l’uno le frasi dell’altra, si sostenevano a vicenda nella scrittura dei rispettivi romanzi, non vi era alcuna competizione tra le loro carriere. Scrissero insieme per diverse riviste, sino ad arrivare a curare una colonna a quattro mani, simbolo estremo del loro sodalizio letterario.
In una pagina folgorante de L’anno del pensiero magico, libro dedicato alla memoria del marito, Joan Didion raccontava di quando John, dopo aver letto la bozza di un suo romanzo, le disse: “E non dirmi che non sai scrivere”. Per lei la più bella dichiarazione d’amore, che ancora mentre scriveva ricordava con le lacrime agli occhi.
L’immortalità letteraria di Joan Didion
Da questo punto in poi riassumere la vita di Joan Didion diventa impossibile senza scadere nell’inutilità del puro dato biografico. La sua autobiografia l’ha raccontata di certo meglio lei stessa attraverso numerosi romanzi, reportage che analizzano spaccature e contraddizioni degli Stati Uniti, saggi che riflettono l’acutezza del suo pensiero.
Ogni romanzo, ogni scritto, ci racconta Joan Didion da una prospettiva diversa, ci mostra un lato sfaccettato e cangiante della complessa e articolata personalità di una donna che sembra aver vissuto mille vite e non una soltanto.
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Esponente chiave della corrente del New Journalism - una nuova tipologia di giornalismo votata alla soggettività dello sguardo - è stata l’audace giornalista-reporter dei meravigliosi reportage contenuti in Verso Betlemme e, in seguito, in The White Album; è stata la scrittrice thriller di Prendila così e Democracy; sceneggiatrice insieme al marito di film di successo quali The panic in the needle park e A star is born.
Scrivere è stato il suo unico comandamento, l’attività cui ha votato tutta la sua esistenza.
Gli ultimi libri di Joan Didion e la narrazione del dolore
Ed è proprio con la narrazione estrema, ultima, del dolore che è divenuta nota al pubblico mondiale. Negli ultimi anni della sua vita Joan Didion mette a nudo il dolore, lo spoglia della sua superficie indicibile, lo affronta in un corpo a corpo attraverso i suoi libri.
Con il romanzo, scritto all’età di settant’anni, L’anno del pensiero magico (2005), che le valse il prestigioso National Book Award e la National Medal of Arts conferitale dal presidente Obama nel 2012. Mentre l’America la celebra come l’ultima celebrità letteraria, il resto del mondo impara a conoscerla attraverso i suoi memoir autobiografici.
Joan Didion nei suoi ultimi romanzi dà al mondo una lezione sul lutto, sul dolore, su come affrontare la morte, e sembra parlare all’umanità intera. Mette a nudo il nocciolo profondo della sua fragilità e così insegna ai lettori ad amarla nella sua profonda individualità di essere umano. In ultimo ci ha insegnato l’amore che sopravvive alla morte. Per questo ricordare soprattutto i suoi romanzi più autobiografici non equivale a sminuire il prestigio della sua vasta produzione letteraria, ma ad elevarlo.
Perché è proprio per quell’ultima lezione che saremo per sempre grati a Joan Didion: per la sua narrazione del movimento oscillatorio dell’esistenza, dei suoi abissi e dei suoi vuoti di senso, per la sua capacità di dichiarare guerra al dolore e, al contempo, di lasciarsene attraversare. Infine, per aver cristallizzato l’amore in forma letteraria.
Nel libro-capolavoro The Year of Magical Thinking Joan Didion esalta il dovere morale della scrittura scrivendo un’opera monumentale sul dolore nel tentativo di esorcizzarlo. Le saremo eternamente grati per questo, per averci consegnato un libro così pulsante di viva, struggente, autencità. Un libro per cui dovremo ringraziarla, per sempre, e di fatto respingere l’evidenza della sua mortalità.
Joan Didion se n’è andata il 23 dicembre 2021, la notte dell’anti-vigilia di Natale. Quella stessa terribile vigilia che aveva raccontato anche nel suo libro più famoso, quando si imponeva di tirare fuori le posate d’argento e di stare al ritmo del flusso continuo della vita, che proseguiva nonostante il dolore. Questo è stato il suo più grande insegnamento: donarci attraverso la scrittura un’arma per affrontare il dolore e andare oltre, lasciandoci trasportare dalla marea dell’esistenza.
Dopo un attimo di sbigottimento dinnanzi alla notizia della sua morte non ho potuto fare a meno di chiedermi: chissà se ora Joan avrà finalmente raggiunto John e Quintana, in un mondo parallelo che va oltre il legame tenace creato tramite la scrittura che lei stessa aveva utilizzato per mantenerli in vita, per ritardare l’addio. Forse è impossibile credere nel Paradiso, ma nella Pace possiamo crederci, anche se siamo ancora fragili e sgomenti dinnanzi all’annuncio spietato della sua mortalità.
Rest in Peace, Joan.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Addio a Joan Didion, un’icona letteraria e di stile
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