Il 28 marzo rievoca una data tetra per la storia della letteratura, ripresa nero su bianco dai vari manuali e impressa nelle opere bibliografiche come un triste presagio. Il 28 marzo 1941 la scrittrice Virginia Woolf dava il suo addio alla vita lasciandosi scivolare nelle acque del fiume Ouse, affondandovi lentamente con le tasche piene di sassi.
28 marzo 1941: la morte di Virginia Woolf
Una fine tragica, e forse prevista, per la donna che aveva saputo narrare la vita in tutta la sua intensità, pure nelle sue contraddizioni. Virginia Woolf aveva scritto nel tentativo di capire il mondo circostante, le ragioni e i sentimenti, le forze invisibili che regolano l’universo, e l’aveva fatto praticando la scrittura indefessamente come una missione.
Nel suo ostinato flusso di coscienza (stream of consciousness, Ndr) Woolf aveva cercato di afferrare l’esistenza nel suo progressivo svolgersi e tuttavia l’aveva sentita fluirle tra le dita irrimediabilmente, sfuggirle, cambiare forma.
In lei vi era il talento della veggente, un talento che attraverso la scrittura le permetteva di scorgere oltre i confini incerti del proprio tempo.
Nell’aprile del 1938, quando sul mondo si addensavano i venti avversi della Seconda guerra mondiale, Woolf concludeva il suo saggio Le tre ghinee con queste parole:
Hitler dunque sta accarezzando i suoi spinosi baffetti. L’intero mondo trema: e il mio libro sarà forse come una farfalla sopra un falò consumato in meno di un secondo.
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Nelle pagine finali del saggio Virginia Woolf si interrogava su un quesito dal valore immortale: “Come prevenire la guerra? ”. Una domanda urgente che in quei giorni di inizio primavera, nel 1938, doveva apparire in tutta la sua drammatica intensità.
Nella chiusa delle Tre ghinee si avverte la potenza travolgente della scrittura di Woolf che era animata proprio da due distinte pulsioni: la strenua volontà di agire e l’atroce senso di impotenza che le faceva da contraltare.
L’addio alla vita di Virginia Woolf
Alla fine prevalse la seconda. L’ultimo anno di vita di Virginia Woolf fu scandito proprio dall’avanzare della guerra. La Gran Bretagna era sotto le bombe di Hitler e parallelamente, come un riverbero interno della follia che imperversava nel mondo esterno, si acuivano le crisi depressive di Woolf.
Quanto dovevano essere neri quei giorni: proprio lei che aveva avvertito il mondo intero con parole che oggi suonano quasi come delle urla, delle invettive, era ora condannata a veder avverarsi i suoi più foschi presagi. Una moderna Cassandra che assiste impotente alla distruzione di Troia.
La mattina del 28 marzo 1941 Virginia Woolf sceglie di avviarsi quietamente lungo la sponda del fiume Ouse, nel Sussex, poco distante dalla casa di Rodmell che lei e il marito Leonard avevano scelto come rifugio e fuga da Londra.
Prima di uscire da Monk House, Virginia lascia su un ripiano una lettera per Leonard, il suo ultimo scritto, e si chiude la porta alle spalle. Mentre cammina si china a raccogliere dei sassi lungo la strada, come se cogliesse dei fiori di campo.
La lettera riposava sul ripiano, ben ripiegata, sarebbe stata letta soltanto dopo, quando ormai il tempo dell’esistenza si era arrestato come un battito. Il commiato alla vita di Virginia Woolf furono parole piene di amore e di riconoscenza, rivolte al marito:
Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. (...) Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.
Sono frasi ricche di gratitudine, così luminose che paiono una lettera d’amore e non l’addio di una suicida. Sembrava riconoscente e, allo stesso, tempo piena di un’amarezza difficile da dissipare. La sua mente geniale, e brillante e vivace, come avvolta da una spessa nube.
Cos’era la vita per Virginia Woolf? C’è una frase, contenuta nel libro-saggio femminista Una stanza tutta per sé, che sembra racchiudere interamente il suo pensiero:
La bellezza del mondo è una lama a doppio taglio, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e divide in due il cuore.
Negli scritti di Virginia Woolf, che appunto cercavano di indagare l’esistenza, questa considerazione appare sempre sottotraccia. La frase sopracitata esprime un modo preciso di sentire la vita che appare connaturato all’autrice stessa.
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Nella narrativa di Woolf vi è infatti la concezione della vita e della morte come di due entità nemiche, eppure inestricabilmente legate: di fronte all’azione corrosiva del tempo agisce, di riflesso, la disperata ricerca di senso propria dell’essere umano.
Il tempo sbriciola, investe ogni cosa, invecchia, sbiadisce, e la scrittura di Woolf registra questo processo, ma al contempo le oppone una forza contraria, i cosiddetti Moments of Being o “momenti di essere”.
Cosa sono questi “momenti di esistenza”?
Woolf perfeziona la concezione dei “moments of being” durante la scrittura del suo libro capolavoro Mrs Dalloway (1925) che scrive, guarda caso, mentre sta leggendo Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
La protagonista de La signora Dalloway, Clarissa, è un personaggio in eterno movimento. Nel romanzo Woolf descrive una semplice giornata nell’arco della vita di questa donna, e in una sola giornata riesce a racchiudere l’intera esistenza della stessa. Il libro inizia alle dieci del mattino di un giorno di giugno del 1923 con Clarissa, la Signora Dalloway, che si reca fuori casa per comprare dei fiori.
La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei.
Da questo incipit folgorante prende vita l’intero mondo di Clarissa, un mondo infinito che comprende una vastità di voragini e di abissi. Tramite la tecnica del flusso di coscienza Woolf trascina il lettore nel turbine di pensieri di questa donna e degli altri personaggi della storia. Per orchestrare la narrazione la scrittrice inglese si serve dei “moments of being”, sorta di istantanee di esistenza che sono in grado di produrre un accumulo di momenti presenti, passati e persino futuri. È sufficiente un libro, una canzone o un determinato oggetto per suscitare in noi un ricordo disperso nei meandri dell’inconscio.
Ogni nostra giornata, sembra affermare Woolf, si costituisce attorno a questi misteriosi “moments of being”, degli istanti d’essere, che fanno vivere in noi impressioni, ricordi e sensazioni allo stesso tempo presenti e passate. L’intera giornata della signora Dalloway si costituisce attorno ai moments of being e così la vita stessa dove la corrispondenza tra ricordo e momento attuale è costante. Questa concezione probabilmente Woolf la derivò dalla lettura di Proust, l’autore che con la madeleine aveva rivelato il potenziale magico contenuto negli oggetti, capaci di farsi tramite della memoria involontaria.
Nelle pagine finali de La signora Dalloway leggiamo:
Che cos’è questo terrore? Che cos’è quest’estasi? Pensò tra sé. Che cos’è che mi riempie di una tale straordinaria emozione?
è quel che pensa Peter Walsh quando esita un attimo prima di raggiungere Clarissa e, infine, la vede apparire come una visione. Attraverso il personaggio della signora Dalloway Virginia Woolf ha colto l’esistenza nel suo eterno fluire: l’ha raccolta e ce l’ha consegnata in un’ampolla a forma di libro perché tutti potessimo coglierne un brandello di senso.
Tramite i moments of being Virginia Woolf sembra dire a ciascun lettore, a ciascuno di noi: “sei unico, irripetibile e magnifico, quindi vivi.”
È il messaggio più bello da ricordare della scrittrice inglese in questa giornata funesta che sembra offuscare un poco il sole splendente di inizio primavera. Nessuno è riuscito a raccontare la vita come Virginia Woolf, a narrarne l’estasi e la disperazione con l’identico impeto.
Quella lama che taglia in due, che ferisce ma non uccide, Woolf l’ha riposta nella sua penna e tramite un sortilegio ce ne ha fatto dono.
Ricordandoci di “guardare in faccia la vita sempre, e di conoscerla per quel che è, e alla fine di amarla per quel che è.”
In una delle pagine più metafisiche dell’altro suo romanzo capolavoro, Gita al faro, Woolf scriveva dell’alba della coscienza che sembra uno straordinario riflesso in prosa, una perfetta descrizione dei suoi epifanici “moments of being”:
La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine.
La vita dunque, cos’è? Virginia Woolf ci ha dato tutte le risposte e poi, quel 28 marzo 1941, ha deciso di chiudere gli occhi e lasciarsi andare nelle acque del fiume Ouse.
Degli ultimi istanti di vita di Virginia Woolf ci ha regalato una straordinaria interpretazione, premiata con l’Oscar, Nicole Kidman nel film The Hours (2002) tratto dall’omonimo romanzo Le ore di Michael Cunningham. Ne riportiamo un estratto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I “moments of being”: cos’è la vita secondo Virginia Woolf
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