“Studio matto e disperatissimo”: non c’è studente che non si sia riconosciuto, almeno una volta nel corso della sua lunga o breve carriera scolastica, in questa celebre espressione.
Perché è la frase perfetta, ciò che meglio descrive quel peculiare affaticamento delle meningi, quel terribile sforzo intellettuale, quella concentrazione assoluta e totale, completamente immune da ogni forma di distrazione, che contraddistingue alcuni periodi epocali della vita studentesca.
Studiare fino alle lacrime, fino alla pazzia, e ci sono dei momenti nella dura esistenza di ogni studente in cui davvero il confine tra apprendimento e follia si fa labile e indefinito. Tutti noi ricordiamo una materia particolarmente ostica o un esame difficile e poderoso la cui preparazione ha richiesto il dispendio di ogni nostra energia intellettuale sino ad arrivare al prosciugamento pressoché totale di ogni forza cognitiva residua.
Insomma cari studenti, sappiate che non siete soli, e che ci sono passati in tanti prima di voi. Primo tra tutti un certo Giacomo Leopardi, cui si deve la paternità della nota e citatissima frase.
Ma per quale motivo Leopardi parlava di “studio matto e disperatissimo”? In quale circostanza scrisse la celebre espressione? Scopriamo insieme quali erano le condizioni del Leopardi studente, che forse potrebbero consolare molti studenti attuali.
Studio matto e disperatissimo: l’origine della frase
L’origine della celebre frase va fatta risalire all’Epistolario leopardiano (1810-1837) che ci consente di ricostruire gran parte della vita, gli incontri, i pensieri e le frequentazioni dell’enigmatico Conte di Recanati.
In una lettera all’amico Pietro Giordani, datata 2 marzo 1818, Leopardi scrisse:
Ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purchè m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione.
Va detto, come preambolo, che Giacomo Leopardi ritrovò in Pietro Giordani, affermato letterato piacentino di parecchi anni maggiore di lui, un fedele amico e confidente.
La fitta corrispondenza con Giordani era iniziata nel 1817, quando il giovane Leopardi inviò all’illustre letterato una copia della sua traduzione del secondo libro dell’Eneide richiedendo una sua valutazione. Pietro Giordani rispose mostrandosi stupito dalla giovane età dell’autore e da quel momento i due non cessarono più di scriversi in uno scambio epistolare che si protrasse per oltre un ventennio, sino al settembre 1832.
Nell’intellettuale piacentino Leopardi ritrovò l’interlocutore di alto livello che tanto agognava e sentiva di poter confidare a lui le proprie pene, le proprie malinconie e l’infelicità che lo affliggeva.
Come afferma lo stesso Leopardi in una lettera, considerava Giordani “un uomo di cuore, di ingegno e di dottrina straordinari”. Già in una precedente epistola, risalente all’aprile del 1817, il poeta raccontava all’amico di essere diventato molto debole e fragile a causa delle fatiche intellettuali cui aveva sottoposto il suo gracile fisico per sei anni.
Nella lettera del 2 marzo 1818 tuttavia Leopardi approfondisce la questione affermando di essere prostrato dalle malattie e, soprattutto, dallo “studio matto e disperatissimo” che proseguiva ininterrotto da oltre sette anni. L’epistola si rivela cruciale per comprendere la genesi del pessimismo leopardiano, ma ci permette anche di comprendere meglio lo stile di vita solitario e schivo del poeta.
Studio matto e disperatissimo: significato
Leopardi nella lunga epistola si definisce uno “spietato carnefice di se stesso” raccontando di essersi rifugiato nello studio distruttivo nel tentativo di sfuggire a quella “cosa che l’ha ferito più d’ogne altra”. Con tutta probabilità qui Leopardi allude al suo amore non ricambiato per la cugina Gertrude, che l’ha spinto a trovare conforto nello sforzo intellettuale che invece lo ripagava con risultati certi.
Allo stesso tempo con un’ironia sferzante, ma gelida, l’autore afferma di aver perduto per sempre il vigore particolare del corpo e della gioventù a causa di
quei lunghi anni trascorsi sulle “sudate carte” (constatazione che ritornerà nella celebre poesia A Silvia, Ndr). Le sue amare considerazioni non risparmiano neppure i genitori, colpevoli di averlo abbandonato a se stesso, lasciandolo a macerare negli studi solitari per molti anni.
Fornisce quindi al Giordani un ritratto di se stesso impietoso, ma tutto sommato compiaciuto. Lo studio fu infatti per Leopardi veleno e panacea: l’unica risorsa che gli permise di elevarsi intellettualmente al di sopra dei suoi coetanei e, in seguito, di raggiungere un’apertura mentale senza eguali.
Nella lettera Leopardi si serve del linguaggio dell’“arido vero” che riprenderà significativamente nelle sue Operette morali (1827). Utilizza espressioni schiette, prive di fronzoli e artici retorici, che si prefiggono come unico scopo di guardare in faccia la realtà per affrontarla pur nel dolore.
La nota frase “Studio matto e disperatissimo” rientra a pieno titolo in questo “linguaggio del vero” adottato coscientemente da Leopardi: eppure è talmente efficace e poetica nella sua espressività densa di significato da essere diventata l’epiteto da accostare alla parola studio per eccellenza.
Così come gli aedi ai tempi di Omero decantavano le “Dee dalle bianche braccia”, oggi generazioni di studenti parlano di “Studio matto e disperatissimo” consapevoli che non ci sono parole più adeguate per dirlo. E che ci siamo sentiti tutti un po’ Leopardi, almeno una volta nella vita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Studio matto e disperatissimo”: chi lo ha detto e perché
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