Di amore e di guerra
- Autore: Mino Milani
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2018
Strano, c’è una divisione tedesca tra Stradella e Casteggio. Che ci fa, se ieri sera la radio ha detto che la guerra è finita? Forse perché non è finita affatto. Il 9 settembre 1943, la maggior parte degli italiani si sarà posta la domanda alla quale non riusciva a dare una risposta il quindicenne Mino Milani a Pavia. Settantacinque anni dopo, lo scrittore lombardo ci consegna un diario di episodi, nel libro “Di amore e di guerra” (Interlinea Edizioni, Novara, 2018, 164 pagine 15 euro), che segue cronologicamente una giovinezza vissuta durante il secondo conflitto mondiale. Si sofferma in particolare sui due anni cruciali al Nord, fino alla liberazione, a fine aprile 1945.
Guglielmo “Mino” Milani, pavese, ha novant’anni. È un classe 1928, come gli avevano insegnato a dire allora. Ha firmato un numero sconfinato di romanzi e libri, di storie e storia per ragazzi, anche a fumetti. Questo è un lavoro su se stesso, nel contesto di vicende importanti per Pavia e l’Italia. Rivive il passato e lo fa rivivere, grazie alla bravura straordinaria, al dono di scrivere semplice, questa volta con una patina di malinconia. Inevitabile, ma non accorata.
È la nostalgia per le stagioni che erano diverse: “neve d’inverno, bucaneve a febbraio” o per Agnese, la fidanzatina sedicenne, un anno più grande. Viveva metà per sé, metà per lei, anzi tre quarti per lei, un quarto per sé. Niente lo interessava di più. Essere innamorato di lei voleva dire esserlo della vita, avere mille motivi per viverla. Lo lascerà, di lì a pochi mesi, per uno “molto più grande” ai loro occhi, addirittura “un ventenne”.
Gli operai andavano al lavoro con le calze rattoppate, vecchie giacchette corte sulle tute bisunte e la gamella riempita dalle mogli di minestra, pane e stracchino. Poi sono venuti i tempi di guerra. Vendendo sfilare un reparto di giovani alpini, reduci dalla campagna di Grecia e prossimi a quella tragica in Russia, il papà che era stato ufficiale delle penne nere nel 1915-18 aveva osservato con tristezza che indossavano la stessa divisa, le stesse mantelline, calzavano le stesse scarpe con le fasce gambiere e imbracciavano lo stesso fucile del suo battaglione, venticinque anni prima.
A quelle condizioni, la guerra non prometteva bene. Cominciano le notizie di giovani caduti, di giovani dispersi, figli di vicini e di conoscenti.
Così la guerra mi entrò nel cuore: adagio, non attraverso notizie di grandi battaglie, di stragi, di vittorie o di sconfitte: ma di singole vite perdute.
Brutto segno, a settembre 1943, quando i soldati si lasciano andare a bere fino allo sfinimento, senza che i superiori intervengano a fermarli. Gli ufficiali, fino ad allora vanitosi nelle loro uniformi eleganti, vestono in borghese e si guardano intorno circospetti.
Un esercito non può ridursi allo sbando da un giorno all’altro, ma così è stato. La sera di mercoledì 8, la radio annuncia che l’Italia ha firmato l’armistizio con gli angloamericani. La guerra è finita? Non per i nazisti, che non perdonano il voltafaccia, dopo tre anni di guerra insieme. Non per i fascisti, che si riuniscono nella Repubblica di Mussolini, alleata di Hitler.
I tedeschi entrano a Pavia l’11 settembre. Una camionetta carica di soldati vestiti di nero, con in testa bustine orlate di rosso e grossi mitragliatori di traverso sul petto.
Cominciano i bandi severi, i proclami minacciosi dei Comandi germanici. Comincia anche il liceo, gli stessi compagni che chiama per nome, le stesse compagne che chiamano per cognome, la Morandi, la Stucchi, le altre e una nuova, la Martelli. Nessuno avrebbe pensato che il padre gliel’avrebbero fucilato, di lì a 18 mesi.
Si ascolta di nascosto Radio Londra, si sentono le fortezze volanti rombare in alto verso Milano. Si tira avanti.
I tedeschi passano di rado, i fascisti girano di più. Tra loro tanti ragazzini, come Biancacci, un sedicenne volontario toscano che i partigiani metteranno al muro in un cimitero. Mario, il fratello maggiore di Mino, cerca di nascondersi all’arruolamento nelle trippe repubblichine. È scoperto, costretto a vestire la divisa dei bersaglieri. Va e viene, soprattutto cerca di darsela, ma lo riprendono sempre. Sarà anche alpino nella divisione Monterosa, impegnata contro i partigiani, ma una provvidenziale malattia gli consentirà di rientrare a casa in tempo e sparire, scampando alla resa dei conti finale.
Tempo di privazioni, di scarafaggi finiti arrosto sotto le polpette.
Qualche soddisfazione gliela concede la sua barchetta sul Ticino, ma che paura, un giorno, quel tedesco di guardia, che lo accusa di volerla rubare e poi cambia umore, rivelandosi un guerriero tutt’altro che feroce: un soldato infreddolito, originario di Colonia.
Alla fine Mino sarà partigiano per poche ore, di guardia armata a un deposito. Si domanda ancora se avrebbe mai sparato e ucciso.
Di amore e di guerra
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