Favole al tramonto
- Autore: Andrea Camilleri
In una favola Esopo narra di un uomo nero che, dopo essere stato acquistato, viene pulito, ritenendo il padrone che quel colore fosse dovuto alla sporcizia. Camilleri ne affida la prosecuzione alla sua scrittura, immaginando che sia la moglie a lavarlo. Le conseguenze non si fanno attendere: dopo il periodo di gestazione, lei dà alla luce due gemelli dal colore marrone. Al marito non viene però in mente il tradimento coniugale. Egli, piuttosto, pensa che siano i neri a diffondere il contagio e decide così l’allontanamento dalla città del suo schiavo.
Il tema qui trattato, come facilmente si nota, è di estrema attualità e fa riflettere sul fatto che dai pregiudizi alla costruzione dell’idea di nemico il passo è breve. E’ questa la sintesi del nono racconto-apologo della raccolta "Favole al tramonto" (Roma, Edizioni dell’Altana 2000). In tutto sono sedici le narrazioni a costituirla. Di esse, unitamente ad altre, la prima (“Il cavaliere e la mela”), la quinta (“Il pelo, non il vizio”), e l’ottava (“Il cavaliere e la volpe”) appariranno nel 2003 su “Micromega” con la precisazione di “ dieci favole politicamente scorrette” data l’allusione alla presenza berlusconiana. “La mia avversione per Berlusconi è totale”, dichiara Camilleri rispondendo ad una domanda postagli da Gianni Bonina. “Attenzione”, subito dopo precisa, “è un’avversione limitata a lui, “di persona pirsonalmente”. Anche stavolta l’influsso in lui esercitato da Sciascia è lampante. “Favole della dittatura” dello scrittore di Racalmuto e “Favole al tramonto” del nostro hanno questo in comune: quello di essere attraversate dalla passione civile che si esplica in una spiegazione generale dell’esistenza. Allegoria e parodia vanno di pari passo.
E’ il caso de “Il pelo, non il vizio”, dove il Cavaliere si incontra nell’Aldilà con un omino dall’aspetto dimesso. “E io la ricuso”, gli dice appena viene a conoscenza che costui è il giudice supremo. Fra realtà e irrealtà, il mondo favolistico di Camilleri è in primo luogo caratterizzato da uno spiccato senso dell’umorismo. In questo libro egli con destrezza si rifà alla tradizione di Esopo e Fedro, ma la rilegge, strizzando l’occhio a Pirandello. E l’umorismo, quale sentimento del contrario, è ad esempio rinvenibile nella favola “Chi è senza peccato”, dove Gesù abbraccia il Diavolo con il plauso di San Pietro. In “Parabola”, il cui nucleo è costituito dall’episodio evangelico dell’adultera, un sordomuto, come tale incapace di ascoltare la parola del Cristo, le scaglia la prima pietra. Gli altri ne seguono l’esempio, mentre a stento il divino Maestro riesce ad allontanarsi. Quasi sempre il taglio, oltre ad essere mordace, è pedagogico e fa pensare al detto oraziano della fustigazione morale attraverso l’ironia. Significativo, in tal senso, è il “mimo” che ne “Il cappello e la coppola” fa affiorare un aspetto inquietante della realtà: il potere mafioso esiste in quanto è l’impero della finanza a servirsene. L’epilogo di ogni favola, diversamente da quanto accade in quello tradizionale, è triste. Forse perché nell’odierna “Iliata”, anagramma di “Italia” e in dialetto “gelata”, si sta ormai senza attese. C’è poco, o meglio nulla, che possa dare allegria. Il disincanto è totale, la narrazione si sottrae a motivi consolatori e lascia con un sorriso beffardo. Quello della sconfitta che, pur non piegandosi ad atteggiamenti rinunciatari, fa guardare alla realtà con la maturità del distacco.
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