La presa di Macallè
- Autore: Andrea Camilleri
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
Timbrato da un linguaggio fluido e comunicativo in cui s’intrecciano l’Italiano con la parlata agrigentina, il romanzo “La presa di Macallè” di Andrea Camilleri è ambientato nell’epoca del regime fascista quando, sin dalla prima classe della scuola elementare, gli alunni indossavano la divisa del “Figlio della Lupa”. Nel 1935 già si cantava “Faccetta nera”, perché l’Italia era in guerra con la Libia. La propaganda diffusa dal “Popolo d’Italia”, il giornale fondato da Benito Mussolini, rappresentava gli abissini come selvaggi nivuri. Intanto, fra le esercitazioni del “sabato” era di moda la pantomima d’una vera e propria lotta: i ragazzini, divisi in due fazioni, da un lato rappresentavano i piccoli balilla, dall’altro gli uomini di colore che avevano sempre la peggio. Dominante quindi l’idea del “nemico”, identificato con il “diverso”, in una diffusione di slogan, tra cui il più noto, libro e moschetto fascista perfetto. In un contesto paesano, tratteggiato con il gusto ironico e grottesco della nota di costume, si colloca la storia di Michilinu, ragazzino di sei anni (un picciliddro) figlio di Giugiù, camerata e poi segretario politico di Vigàta. Egli viene plasmato dalla cultura del tempo che, estraniandolo dalla gioia per la vita, lo rende ubbidiente e fanatico fino a cancellare in lui ogni desiderio di conoscenza. L’educazione, ricevuta ispirata al più bieco fanatismo, è tale da inquinare i suoi ragionamenti, deformandoli: chiunque si oppone al fascismo può essere fatto fuori senza alcun pentimento né rimorso. E’ intanto la presa di Macallè a trasmettere un’euforia collettiva che fa scattare in lui il desiderio di volere uccidere, con la baionetta del moschetto che porta sempre con sé, il compagnetto, figlio di un comunista. A questo punto il racconto, che si sviluppa in un intreccio di malizia erotica e violenza sessuale, acquista la fisionomia del dramma psicologico. L’angoscia si impossessa del suo animo e Michelino si sente invaso da allucinazioni. Inaspettato l’epilogo dai toni cupi e crudi. In sostanza, la sua è l’amara storia di un vinto, di un ragazzino dall’infanzia tradita, derubata, violentata e intrisa di turbe mentali. Il fanatismo, unitamente al mancato dialogo in profondità con il mondo degli adulti, gli impedisce la costruzione di una mente critica come l’età richiederebbe, mentre la propaganda a senso unico, con la complicità della Chiesa (il Duce: l’uomo della Provvidenza!), diviene indottrinamento. Sono queste le cause che, unite a certi comportamenti diffusi nell’ambiente, fanno di lui un pluriomicida e un suicida. E’ la violenza ad imporsi, a trionfare sull’uso della ragione quando contraddizioni e sopraffazioni ideologiche, risentimenti e barriere etnocentriche, pregiudizi e stereotipi, facendo smarrire ogni certezza etica, trovano ampia risonanza nella mentalità collettiva, di cui il mondo infantile è parte integrante. Il più vulnerabile e il più fragile, appunto per la mancanza di esemplari modelli educativi che fa perdere al comportamento la corretta direzione civica. In tutto questo si colloca l’attualità del libro di Andrea Camilleri, segnata da sollecitazioni così profonde da indurre a riflettere sulla condizione di smarrimento esistenziale che oggi si sta vivendo.
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