La voce degli uomini freddi
- Autore: Mauro Corona
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2013
“Era un paese di neve. Nevicava anche d’estate. E nelle altre stagioni lo stesso. Nevicava sempre.”
Questo è l’incipit dell’ultimo libro, candidato al Premio Campiello 2014, di Mauro Corona “La voce degli uomini freddi” (Mondadori, 2013).
E’ una storia a metà fra il romanzo e la fiaba che ci fa, ancora una volta, ritrovare quell’autore amante e conoscitore della montagna e della natura.
Mauro Corona ci presenta un paese in cui la neve cade sempre e gli abitanti, detti “gli uomini freddi” hanno un aspetto che molto si confà al paesaggio:
“Uomini e donne soffiati dalla neve, statue di ghiaccio che nessun fuoco avrebbe mai potuto sciogliere.”
Eppure quegli esseri che, apparentemente, paiono non infiammarsi per nulla, vivono lassù, nella sperduta valle, una vita quasi normale: sono dediti all’agricoltura e all’allevamento e pronti ad accettare qualunque cambiamento di tempo nonché le difficoltà e le tragedie. Ecco gli uomini freddi di fronte alle valanghe, il continuo pericolo di quel luogo. La gente, pur abituata ai bramiti improvvisi dei cedimenti dei blocchi di neve, sa riconoscere il pericolo e cerca di sfuggire a quell’ira della natura paragonata a “un ghigno bianco, alto dieci metri, con la bocca aperta”.
Gli elementi della natura paiono, allo stesso tempo, amici e nemici degli uomini. Il vento, ad esempio:
“... era un amico e aiutava gli uomini freddi. Faceva girare mulini, segherie, battiferri. Asciugava i panni e faceva seccare la frutta. Ma quando decideva di imitare le valanghe e si metteva a testa in giù, in quel momento si faceva di pietra. Una lastra roteante che toccava, sfondava e spazzava via.”
E così l’acqua:
“ Quando scorreva nei ruscelli e nelle fontane era un piacere vederla e sentirla. Anche tenerla un poco in bocca era un piacere ... ma quando si riuniva tutta insieme e rotolava con lo stesso salto improvviso delle valanghe, c’era da tremare...”
Ai periodi in cui predominano il bianco e il grigio, se ne alternano altri in cui il paesaggio è rallegrato dal sole e assume sfumature dorate. E’ quello il momento della rinascita per gli uomini, gli animali, la natura tutta. In quella vallata, anche se c’è freddo, regna la serenità unita ai buoni sentimenti che hanno il loro culmine nella festa del miele, simbolo di dolcezza e delizia così come l’amore delle coppie del villaggio che viene suggellato in quell’occasione.
Passano gli anni, anzi i secoli.
Un giorno, a preannunciare grandi cambiamenti è un bimbo miracolosamente scampato alla furia d’una valanga. Nonostante perda inizialmente la voce, tempo dopo parla e preannuncia che l’uomo delle pianure e delle città, un giorno, farà tanti cambiamenti ma per loro, gli uomini freddi, sarà la fine. Inutile porgli altre domande: appena dette queste cose, il bimbo dimentica tutto. La vita comunque va avanti. Qualcuno si spinge dalle vallate alle città ma, poi, con nostalgia, fa ritorno al luogo natio. Passa tanto tempo e con esso personaggi e avvenimenti tutti narrati, quasi dipinti dalla mano sapiente dell’autore.
Un dì due giovani, abili nel conoscere il linguaggio degli animali, dimenticano l’amore per la natura tutta e s’avviano alle “città fumanti” anche se, fra i due, lei è trattenuta da una voce che sente dentro di sé. Partono e giungono nel fumo, nel caos ma il nuovo li attrae. Ecco tante meraviglie: abiti, scarpe e quant’altro, ma soprattutto la possibilità di spostarsi non più a dorso di mulo ma con quei mezzi a quattro ruote che, però, "fumano di continuo e avvelenano i polmoni”. Le comodità, l’apparente benessere dividono la coppia. La loro vita cambia, come ogni lettore potrà capire dal romanzo.
Intanto il popolo degli uomini freddi continua la propria esistenza che, seppur tribolata, è bella. In quei luoghi non manca nulla: ci sono boschi, montagne, grotte di cristalli e, soprattutto “caverne di memorie”. Quello, per gli uomini freddi rimane un paradiso e nessuno dovrebbe violar la loro pace. Eppure l’uomo delle città fumanti è lì, poco distante e vuol muoversi verso quei luoghi immacolati solo perché spinto da bassi interessi di denaro e potere.
Giunge il giorno tanto temuto: sparisce l’acqua del ruscello e gli uomini freddi, avvezzi ad ogni asperità della natura, partono alla ricerca della sorgente. Ripercorrono l’alveo che ora appare un luogo senza vita. Giungono, dopo giorni, davanti a un immenso muro: la loro acqua è tutta intrappolata lì e uomini brulicanti spiegano che servirà a portare luce nelle città. Li ha condotti in quel luogo quel valligiano senz’anima che tanti anni prima s’era allontanato dal paese e che, in città, s’era arricchito. Gli uomini freddi non avranno più il loro torrente: c’è chi è rassegnato, chi colmo d’ira. Passa il tempo e nella valle di neve la vita va avanti comunque, anche se con più difficoltà. Ma un autunno la terra trema e trema ancora. Pare una valanga che gli uomini freddi da secoli san fronteggiare. Ma questa volta non han fatto i conti con i malvagi delle città fumanti e non ricordano ciò che aveva preannunciato tanto tempo prima un bambino. Quel boato è qualcosa di diverso. Il grande muro si rompe e l’acqua, per lungo tempo rubata, torna nella vallata. Porta con sé tutta la rabbia d’esser stata compressa, costretta al di là di un muro e, così, nel suo percorso spazza via il villaggio e l’intera vallata. Impossibile non leggere in queste descrizioni la famosa tragedia del Vajont di cui Corona ha spesso tanto parlato. Nulla torna più come prima. Anche i pochi superstiti fuggono via.
La narrazione ha un triste finale. Non basta ora ricordare quegli uomini, dar loro sepoltura, ritrovare i loro oggetti. Quel che va capito è che la natura ha comunque una sua voce e, nel libro, come nella realtà, dà forti insegnamenti agli uomini. Certo, bisogna saperla ascoltare.
“La voce degli uomini freddi” è un romanzo che merita davvero la candidatura al Premio Campiello: il linguaggio di Mauro Corona è ancor più fine e delicato che in altri suoi libri. Esso è pulito, puro come l’anima di quell’uomo di montagna che lui è ancora e il cui spirito palpita in ogni sua parola, in ogni sua frase carica di un sentimento e un amore per la natura cui noi, abituati a mandare messaggi in due secondi, a muoverci a velocità supersoniche, a vivere solo in mezzo alle comodità, abbiamo dato poco valore perdendo uno fra i più grandi tesori a tutti donati.
La voce degli uomini freddi
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peccato che nella recensione non si dica che la diga del Vajont è ancora in piedi. L’acqua ha tracimato ma il muro è ancora lassù dopo tanti anni e volge le spalle ai boschi che nel frattempo si sono innalzati dalla terra scivolata nell’acqua...
Gentile signora Carmen, la recensione riguarda il romanzo di Mauro Corona. Si sa che l’accenno è quello alla diga del Vajont ma essa non viene mai nominata nel romanzo. L’intento dell’autore è ancor più ampio perchè rivolto, attraverso quella storia, alla natura in generale, a quella natura cui l’uomo porta poco rispetto (non solo riguardo la tragedia dell Vajont) e che prima o dopo fa sentire la sua voce. E’ comunque una storia bellissima. Le consiglio davvero di leggerla.