Le serenate del Ciclone
- Autore: Romana Petri
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2015
Cantante lirico e attore di cinema, Mario Petri sembrava un colosso sul palcoscenico e ancora di più sugli schermi in Cinemascope di sale e arene. Ma era un cattivo solo di facciata. “Mio padre era una persona fragile”, credeva nell’amicizia e non ammetteva tradimenti, restava esposto ad ogni ferita, dice di Mario Pezzetta la figlia Romana Petri, nome d’arte col quale la scrittrice e traduttrice firma la biografia narrativa “Le serenate del Ciclone”, un romanzo dell’Italia, dagli Anni Venti agli Ottanta, edito da Neri Pozza (collana I narratori delle tavole, ottobre 2015, pp. 590, euro 18,00).
Un gigante, ma con un animo facile da ferire. Ed era basso, ma non di statura. Col suo vocione cantava da basso-baritono nelle opere liriche. Ma il grande pubblico e i bambini degli anni del boom ricordano quel pezzo d’uomo di quasi due metri, con un gran torace e un fisico da culturista, soprattutto come lo statuario antagonista nei film di Ercole, Maciste, nei peplum di polistirolo girati a Cinecittà. L’attore umbro ha calcato i set della Mecca italiana del cinema dal 1960 (La regina dei tartari) al 1965 (Golia alla conquista di Bagdad), per una ventina di film d’azione, adatti alla sua fisicità, prima di tornare all’attività di spettacolo che gli era più congeniale, con quella bella voce che scaturiva dalla cassa toracica così sviluppata.
E pensare che il colosso, il gigante, il titanico eroe in calzari, alla nascita pesava poco più di due chili, il 21 gennaio 1922, figlio di un piccolo commerciante di carbone e di una contadina della provincia di Perugia. Da cantare ne ha avuto tanto, già da piccolissimo, fino allo sfinimento, a giudicare dal racconto dei primi anni di vita che apre il libro, un romanzo più che una biografia, tiene a precisare Romana.
Andando a lavorare nei campi, la mamma lo lasciava sotto un albero, in una cesta di vimini coperta da un telo di cotone grezzo. Le sue prime quattro stagioni Mario e aveva passate così, “se le era piante da solo”. All’ora di pranzo, lo trovava quasi sempre addormentato, ma di certo per esaurimento.
La giovane madre doveva lavorare duro, nella società contadina di allora. È perciò il romanzo del Paese intero, ma anche di casa Pezzetta, della famiglia di mamma Terzilia, di nonno Adamo detto Damino, di un’Italia di campagna che si sposta a Roma, a teatro e poi a fare il cinema.
Un lavoro di scrittura che ha richiesto un anno per la stesura e molto, molto di più per la gestazione, perché Romana Petri non riusciva a staccarsi dalle memoria del padre, ad elaborare il lutto della scomparsa (a 63 anni per un ictus, il 26 gennaio 1985), di un uomo che rappresentava tanto nella sua vita e che le somigliava, nel carattere, nel modo deciso ma sensibile di affrontare la vita e di guardare alle persone, al passato, al presente e al futuro.
Non è tutta verità e non è tutta finzione, perché nella vita di Mario, raccontata da Romana, c’è verità e finzione, ma anche tanta storia autentica, loro e del Paese.
Per la prima parte biografica, quella nella campagna umbra, l’autrice ha fatto tesoro di racconti del papà sulla sua infanzia e adolescenza, di quelli della madre e della nonna, di foto e documenti. Per metà libro riporta cose che non ha vissuto (e dice di essersi pure divertita), mentre nella seconda descrive quelle che le sono accadute o che ha pure causato: “ed è stato più difficile”.
“Le serenate del Ciclone” è un romanzo-biografia ampio, collettivo e individuale insieme, al plurale (l’Italia) e al singolare (Romana, la famiglia). È la lunga storia del popolare volto del cinema e del cantante d’opera (soprattutto) che frequentava Maria Callas e von Karajan e che tanto stimava un promettente direttore d’orchestra italiano. Era Riccardo Muti, che diventerà grande, ma che ha ricambiato l’affetto con freddezza. Romana non glielo perdona.
Petri era legato da una franca amicizia a Sergio Leone e questo regala una chicca, la gestazione fortunata di un nuovo genere cinematografico, con il regista romano che progetta di dare al pubblico una cosa diversa: film western “con molto laconismo”, poche parole, tirate col contagocce, ma indimenticabili. Il pubblico considerava solo americano il far west e non era il caso di disorientarlo. Per questo, i nomi del cast saranno anglosassoni: il regista firmerà come Bob Robertson, Volonté si chiamerà John Wells e Dan Savio il bravo compositore della colonna sonora, Ennio Morricone, compagno di scuola di Leone.
I soldi della produzione sono pochi e per il ruolo del pistolero si punta su un giovane attore americano smilzo, un certo Clint Eastwood. Piace il modo di camminare, rilassato, senza sforzo, di quei pigri che scattano all’improvviso e da soli ne fanno fuori quattro.
Il titolo? Hanno pensato di chiamarlo “Il magnifico straniero”, ma non convince. Sarà “Per un pugno di dollari”. È il 1964, è cominciata l’era degli Spaghetti western.
Le serenate del Ciclone
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