Lo spazio dell’immaginazione
- Autore: Ian McEwan
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2022
Questo smilzo pamphlet di Ian McEwan, tradotto da Susanna Basso, parte da un episodio storico. Si racconta di quando lo scrittore Henry Miller regalò a George Orwell una giacca calda di velluto a coste. Dal momento che Orwell stava partendo per la Spagna, siamo nel 1936, e Miller con quel gesto, avrebbe fatto intendere che era dalla parte antifascista.
Quando i due si incontrarono, Miller dimostrava tutti i suoi quarantacinque anni, mentre George Orwell ne aveva trentatré. Era in voga nel Novecento, che se uno scrittore scriveva una bella recensione ad un altro scrittore, si iniziava un breve o lungo scambio epistolare e quando era possibile ci si vedeva a cena o a bere qualcosa, anche se ci si incontrava in un posto lontanissimo, come la Spagna.
L’amicizia nacque sui contrasti tra i due. Miller era un pessimista edonista, col pallino del sesso a tutti i costi, che aveva in odio qualsiasi militanza o idea politica, mentre Orwell stava andando in Spagna da volontario, una scelta che Miller nemmeno prendeva in considerazione, senza però convincere l’amico del contrario.
Miller pensava che la civiltà era agli sgoccioli e poi se ne fregava di tutto, a patto che potesse fare sesso.
Orwell, invece, credeva che uno scrittore dovesse stare dalla parte etica e democratica; non poteva fare finta che il nazismo fosse un fatto trascurabile. Bisognava espellerlo dalle radici. Peraltro, l’amicizia non si concluse, ma della giacca non si parlò più. Ma le posizioni furono molto distanti, Miller stava a Nord, e Orwell al Sud.
Nel saggio di Orwell Nel ventre della balena c’è proprio scritto che Miller preferiva stare nel grasso di una balena, per non prendere soluzioni, indifferente a tutto come se fosse morto. Ma in realtà il saggio di Orwell era più pessimista di quanto credeva l’autore stesso. La nascita dei totalitarismi e del fascismo lo mettevano in una condizione impossibile: credere nell’uomo, ma poi pensare che l’uomo sta meglio con una dittatura che con una democrazia, portatrice quest’ultima di mollezze, di uomini indifferenti.
Paradossalmente Orwell con questo saggio è più pessimista di Miller, che almeno esalta il vino, le donne, l’amore libero, l’omosessualità, la crapula finché dura.
In quel periodo Nabokov elargiva consigli ai suoi studenti, intimando loro di togliere dagli scritti i grandi temi, ma di fermarsi molto sui dettagli. La verità drammatica era che un certo numero di scrittori capì con sconforto che qualsiasi cosa avessero scritto, anche un romanzo di immenso successo, non scalfiva di una virgola quello che furono i campi di concentramento nazisti. Gli scrittori presero coscienza della loro irrilevanza, alcuni quasi si beavano di non servire a niente.
Nel frattempo due scrittori di razza come Orwell e Albert Camus dovevano incontrarsi a Parigi, nel 1945, a fine guerra, ma non accadde, perché Camus era malato di tubercolosi. Ma sicuramente c’era affinità tra i due, che con Miller non si era creata.
Camus e Orwell erano contro i totalitarismi, erano antisovietici e anti-stalinisti. Completamente fuori dalla ortodossia della sinistra.
Quando Camus parlò, dopo aver vinto il Nobel, di libertà di espressione e della necessità di metabolizzare al più presto i campi di concentramento, il nome che fece per indicare la purezza e la libertà non era certo uno scrittore, ma Mozart (anche se Ian McEwan è troppo accorto per non accorgersi che mica era così libero Mozart, sennò che ne facciamo del mecenatismo?).
A un certo punto, mentre ancora scrive di Camus e del suo concetto di impegno, Ian McEwan fa un nome che forse avrebbe trovato consensi in Orwell e in Camus, ovvero Henry James e il suo lunghissimo volume dal titolo L’arte del romanzo.
James perseguiva la "vita sentita" del romanzo, il lerciume, il grigiore, il puzzo di cavolo, niente voli pindarici, o scelta tra ottimismo e pessimismo.
Quello che vince la partita alla fine è Orwell, che nominato da una consigliera del presidente Trump, il suo 1984, divenne il libro da comprare in tutti gli Stati Uniti, come era accaduto durante la Guerra Fredda. Il libro era all’indice, ma russi, ciechi e polacchi avevano trovato il modo di tradurlo. Il termine "psicopolizia" e"bipensiero" sono ancora molto attuali oggi.
Ma il libro che Ian McEwan vuole pubblicizzare come il vero romanzo politico è il trascuratissimo La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino.
Uno scrutatore è messo nelle condizioni di far votare disabili, di un ospedale dove suore e infermieri fanno votare tutti Democrazia Cristiana. Il protagonista Amerigo è disgustato e chiama Lia al telefono, che gli comunica che è incinta. E questa storia continua.
McEwan sostiene che non può esserci romanzo politico se, a lato, non c’è una bella storia da raccontare.
Che poi sono le ultime pagine del saggio. Se non metti una storia qualsiasi nel tuo romanzo, che rifiuti di chiamare “distopico”, il far entrare nella trama il cambiamento climatico porta a una noia belluina, vorresti farti carico personalmente dello scioglimento dei ghiacci al polo Nord e ora anche al polo Sud.
Lo spazio dell'immaginazione
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