L’albero della vergogna
- Autore: Ramiro Pinilla
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Fazi
- Anno di pubblicazione: 2020
Opera di Ramiro Pinilla, uno dei più importanti e stimati romanzieri spagnoli, L’albero della vergogna (Fazi, 2020 - Traduttore: R. Schenardi) è una vicenda ambientata nei Paesi Baschi subito dopo la vittoria di Franco. La storia abbraccia un ordine temporale di oltre trent’anni e ha inizio così:
“Tutti ci ricordavamo dell’irruzione nel giugno del ‘37. Vivevamo tempi duri, soffrivamo un vuoto per uomini: caduti in combattimento o condannati a morte o a trent’anni di carcere da tribunali militari”.
Chiunque può essere testimone di orribili nefandezze: è ciò che avviene anche a Gabino, un bambino di soli dieci anni, che vede il padre e il fratello maggiore trucidati dai falangisti nella sua casa di Gexto. Quell’orrore rimane nei suoi occhi, ma s’imprime anche nell’animo di Rogelio Cerón, uno degli assassini. Lo sguardo del ragazzino, pieno di mille sentimenti, ma anche di tanto risentimento e dolore cattura l’uomo e, pur con un prolungato silenzio, lo lega a sé e alla propria tragedia.
Gabino stesso seppellisce papà e fratello in un semplice campo vicino a Gexto e Rogelio resta là, a guardar quel lembo di terra, a osservare e a chiedersi perché il bambino faccia innumerevoli tentativi affinché sulla tomba attecchisca una pianta di fico. Il bambino viene solo di notte a trovare i suoi cari: per tutto il resto del tempo, a vegliare quella tomba e quella pianta che non devono essere profanati, c’è Rogelio, ormai entrato in una dimensione assai diversa della vita. Per lui, del suo passato falangista, non esiste altro che quel gesto ch’egli rivede negli occhi muti ma assolutamente espressivi di Gabino. Il senso di colpa si mescola al terrore per il tempo in cui il bambino sarà cresciuto: a sedici anni infatti, si viene considerati maturi, si diventa uomini e si può anche uccidere. Farà questo Gabino a Rogelio? E, là sotto, che ne è della salme trucidate?
Il fico cresce. così come le sue radici, che forse, ora, abbracceranno quel che resta di corpi ormai decomposti e consumati. Di loro non dovrebbe quasi esserci più traccia, ma padre e figlio crudelmente uccisi è come fossero sempre lì, presenti, perché rivivono negli occhi del figlio che ogni notte visita la tomba e cura il fico.
Da allora Rogelio Cerón sta in piedi o su una sedia nel punto esatto in cui il ragazzo seppellisce i suoi morti, veglia e attende. Dimentica persino se stesso e, se non fosse per l’anima buona di una donna che da Gexto gli porta vivande, forse morirebbe anche di fame. Il suo unico pensiero va alla tomba e al bambino che ogni notte la visita. Rogelio conduce ormai una vita da eremita e attorno alla sua figura così inusuale, perché non curata, da tempo poco lavata e non rasata, nascono le più strane dicerie. Un pazzo? Un eremita o un santone? Chi è quest’uomo, dimentico del mondo e di ciò che in esso avviene?
Anche quando il bambino cresce e, allo scopo di non soffrir la fame, viene mandato in seminario, Rogelio resta lì, presso il fico, come silenziosa vedetta di un luogo che non va profanato. Passano gli anni e per l’eremita non c’è più il pericolo che Gabino, ormai cresciuto, possa vendicare su di lui l’uccisione dei suoi cari. Gabino si fa prete, ma Rogelio, nonostante le innumerevoli visite anche di persone conosciute nel passato e a lui care, non abbandona quel piccolo pezzetto di terra, non lo cede a nessuno, tantomeno a coloro che sotto il fico pensano si possa celare qualcosa di prezioso.
Poi, con il passare del tempo, il mutare del paese cambierà la storia: proprio quel piccolo appezzamento è destinato a divenire una nuova scuola per il paese. Sarà Rogelio a difendere quella terra fino all’ultimo respiro. Non morirà per mano di Gabino, ma un tragico destino lo condanna a una fine comunque violenta.
Pare che l’errore del tempo di guerra accompagni Rogelio fino alla fine e che la redenzione debba avvenire in maniera assai severa, prima con l’allontanamento dalla vita sociale, poi con una morte innaturale e cruda, quasi a voler chiudere il cerchio di una serie di nefandezze.
L’intera storia è sviluppata con una grande abilità, che consente di delineare una serie variegata di personaggi assai credibili, tra cui, oltre al tormentato Rogelio Cerón, tanti altri che si distinguono per umanità o assoluta mancanza di essa. L’attenzione prestata alla paura e al senso di colpa che distingue Rogelio non è incompatibile con la manifestazione di comportamenti che aiutano a ricostruire oscuri stadi del passato: vivi sono i ricordi della crudeltà delle rappresaglie, dell’arroganza dei vincitori e, al contempo, c’è l’esempio di coloro che in circostanze avverse si prodigano per gli altri.
Queste importanti tematiche sono raffigurate attraverso personaggi assai realistici che dimostrano ancora una volta il potere narrativo di Ramiro Pinilla e rendono L’albero della vergogna un romanzo magistrale in cui i drammi di uomini che soffrono sono descritti in maniera assolutamente toccante e veritiera, seppur il racconto sia frutto di fantasia.
Il romanzo ha davvero molti elementi preziosi: è dolorosamente vicino alle sofferenze, ma anche all’espiazione. I suoi protagonisti, pur con i loro dialoghi scarni, appaiono assai vivi e intenso è lo scambio di pensieri spesso nutriti di dolore.
Questa è l’opera di un grande romanziere che, attraverso i suoi scritti, ha avuto il coraggio di non seppellire un passato cruento e inumano. Il ricordo delle crudeltà è mediato dalla sofferenza e dall’espiazione: ciò rende L’albero della vergogna una vicenda di profondo valore umano e letterario.
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