Alfabeto Sciascia
- Autore: Matteo Collura
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Longanesi
- Anno di pubblicazione: 2009
Apparso nel 1986 come testo allegato al settimanale “L’Espresso” con il titolo Pirandello dall’A alla Z, fu pubblicato da Adelphi nel 1989, l’anno della scomparsa di Sciascia. Alfabeto Pirandello, il nuovo titolo: un piccolo, ma succoso libro da cui pure si ricava quel che lo scrittore dice di sé, delle ragioni dello scrivere e della sua idea di letteratura. Con delle aggiunte Sciascia presenta Pirandello non in maniera accademica, ma attraverso lemmi scandagliati con la maestria di chi possiede la materia e gli strumenti adeguati a trattarla.
Ci si trova dinanzi a brevi squarci di autentico spessore culturale su aspetti di vita siciliana e italiana: trentatré le voci a mo’ di dizionarietto, individuate come pietre miliari per una trama che è insieme narrazione, descrizione, argomentazione. Le sorprese non mancano e gli argomenti si annodano con la precedente produzione saggistica sul celebre drammaturgo e letterato. Suggestive tracce, nonché lampeggianti orientamenti vi si trovano come punto di partenza per un approfondimento della vita e delle sue opere.
Matteo Collura, allo scopo di favorire una conoscenza il più possibile pragmatica delle opere di Sciascia, riscrive la sua poderosa opera Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, selezionandone con sottigliezza critico-inventiva cinquantotto voci, tenuto conto della struttura del dizionario sciasciano e senza perdere mai di vista le opere del recalmutese i cui brani vengono citati in un discorso organicamente coerente. Alfabeto eretico fu dapprima il titolo dato al suo libro pubblicato nel 2002, poi riproposto come Alfabeto Sciascia (Longanesi, 2009).
Sulla motivazione che l’ha indotto al cambiamento, così si legge nel risvolto di copertina:
Se è vero che a vent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia si è fatta più acuta la necessità di averlo tra noi, già nel titolo ora si sente il bisogno di richiamarne il nome. Anche perché, oggi ancora più di ieri, il nome Sciascia è sinonimo di eresia.
Eretico, si sa, è colui che, dubitando in modo libertario, mette in luce le contraddizioni d’ogni sistema e istituzione, non accettando imposizioni e divergendo da opinioni omologate e supinamente accettate. In tale ottica Sciascia fu “eretico”, non riconoscendosi acriticamente nelle ideologie precostituite. Gli importava piuttosto di ragionare sulla scoperta d’una verità sociale che garantisse il diritto di giustizia e di giustizia sociale.
Testimone scomodo del suo tempo, pertanto: non del tutto accettato in massima parte dalle confessioni laiche e totalmente da quelle religiose, e perciò ereticamente e civilmente impegnato. America, Amicizia, Fascismo, Gattopardo, Giustizia, Lavoro, Mafia, Manzoni, Moro, Parigi sono alcune delle cinquantotto voci su cui Matteo Collura si sofferma dettagliatamente e con acume critico, prendendo in considerazione le opere, il pensiero e le ragioni stesse dello scrivere di Leonardo Sciascia.
Difatti nella “Nota dell’autore”, dopo aver sottolineato che il suo libro nasce da Sciascia, egli dice:
Del resto ho sempre considerato l’ “Alfabeto pirandelliano” il libro più sciasciano di Sciascia, quello in cui più ritrovo il suo pensiero e le sue ragioni dello scrivere. Come le idee, i libri – quando sono buoni libri – ne creano altri, anche se non di uguale valore; così come non soltanto essi scelgono i “loro” lettori, ma li formano.
Coinvolgente il lemma “Zolfo” con cui Sciascia chiudeva il suo “Alfabeto pirandelliano” e con il quale Collura conclude il suo volumetto. La parola, scandagliata secondo plurimi punti di vista, si svolge con la presentazione dello zolfataro, rivelatosi, aveva scritto Sciascia, “un personaggio demoniaco”.
Fisionomia che gli derivava dall’essere:
un uomo diverso, privo del tradizionale senso della roba e del denaro, che rischiava la vita ogni giorno, che amava ubriacarsi, mangiar bene e attaccar briga, che scialacquava i pochi quattrini che guadagnava tanto duramente, e che ha brutalmente introdotta una visione del mondo.
Netto il divario tra il contadino e lo zolfataro. Se “sprangato” e “passivo”, commenta Collura, era stato l’orizzonte del contadino, paradossalmente l’uomo della miniera, più si rintanava nel ventre della terra guadagnandosi da vivere in condizioni bestiali, più guardava oltre vivendo dinamicamente l’esistenza. Accennando al nonno paterno di Leonardo Sciascia, riferisce di una “scriteriata e suicida corsa all’oro”, di “protagonisti” e “folle di sfruttati”, di “furbi speculatori” e di “ingenui sognatori”.
L’analisi condotta in poche paginette è obiettiva, documentata e ricca di riferimenti bibliografici. L’imprenditorialità era allora fiorente, tant’è che nel 1834 in Sicilia si contavano centonavantasei miniere di zolfo.
Eppure la follia e l’allucinazione si toccavano con mano scriveva Sciascia nel capitolo dell’opera La corda pazza intitolato “La zolfara”. Richiamandosi al mito plutonico nella terra in cui si apre la bocca al regno degli inferi, riportava un brano del giornalista Adolfo Rossi, scritto nel periodo in cui il Governo stava proclamando lo stato d’assedio per reprimere le tumultuose rivolte dei Fasci:
Nella mia vita giornalistica ho assistito in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Africa, in America a scene orribili d’ogni maniera: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo mi aveva però così profondamente colpito come quello della zolfara…
Vi era sceso insieme all’onorevole De Felice, uno dei capi dei Fasci:
Sapevano ambedue per aver letto la relazione Jacini e altre inchieste rimaste infruttuose, che cosa sono i carusi, ma nessuno scrittore potrà darne mai un’idea sufficiente a chi non li ha veduti in quelle vere bolge infernali… Ne avemmo una così profonda impressione di pietà, che ci mettemmo a piangere come due bambini.
Alla voce di Sciascia si mescola quella di Collura con la deferenza del discepolo verso il maestro che fa venire in mente il rapporto di Dante con Brunetto Latini.
La sintonia è particolarissima, esprime uno stretto legame tra i due appartenenti al medesimo ambiente e alla stessa ascendenza e commuovono le parole di Collura quando spiega il suo amore per Sciascia:
Era questa la vita che Sciascia rischiò di fare; perché era questa l’ “avventura” che era toccata a suo nonno, a suo padre e a suo fratello, anche se legati alla miniera sotto forme diverse ma non meno opprimenti (era questa l’ “avventura” alla quale affidavano le loro tragiche esistenze gli uomini che nascevano in quegli anni, in quella zona di Sicilia, e tra questi uomini mio nonno paterno e, nell’adolescenza, mio padre.
Di un comune “scampato” pericolo egli parla e del “riscatto” che li unisce: quello dei siciliani sfuggiti alla “dittatura del feudo”:
che è anche la “dittatura” del luogo in cui si nasce; una tirannia dalla quale non tutti riescono a salvarsi.
Viene poi rievocato il suicidio del fratello dello scrittore di Regalpetra; due anni più giovane di lui e dal temperamento gioviale, le cui cause non riuscì mai a spiegarsi: suicidio avvenuto durante uno sciopero di zolfatari, in una desolata miniera nelle campagne di Ássoro, in provincia di Enna.
Scrive Collura:
Aveva venticinque anni, Giuseppe Sciascia, quando si sparò un colpo di pistola alla testa, il padre lì, in quella miniera, testimone, protagonista e vittima di una tragedia che per un genitore è la peggiore che si possa compiere.
E ricorderà Sciascia il triste episodio conversando con Domenico Porzio, il cui brano è riportato nel libro Fuoco all’anima.
Da parte sua, sul misterioso percorso della vita si sofferma Collura: dal destino del luogo di nascita al fortunato tragitto verso l’avventura dello scrivere, la via d’uscita di cui parla anche nella voce “Aragona”. Varrebbe la pena di presentare altri lemmi, ma lasciamo al lettore l’opportunità di una scoperta fatta di nessi sorprendenti.
La lettura è scorrevolmente fluida, tiene desto l’interesse per la finezza di chi sa raccontare senza accademiche artificiosità.
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