Scritto a Firenze tra il 1832 e il 1833, Amore e morte è il secondo canto del cosiddetto ciclo di Aspasia, ispirato a Giacomo Leopardi dall’innamoramento per Fanny Targioni Tozzetti.
Secondo il pensiero di Walter Binni il ciclo di Aspasia inaugura una nuova fase della poetica leopardiana che si avvia nel 1831, con la stesura de Il pensiero dominante e si conclude con La ginestra (1836): si modifica l’intonazione del verso, si avverte la presenza di una personalità sicura e battagliera, si assiste alla “creazione di un canto assoluto ed eroico”, viene meno il verseggiare nostalgico e armonioso degli idilli. Leggiamo, dunque, nei Canti un nuovo Leopardi che rifiuta il tenero canto fatto di similitudini armoniche e privilegia, invece, la dissonanza e “l’indomita affermazione di sé”.
Il primo riferimento alla lirica Amore e morte è presente in una lettera che lo stesso Leopardi inviò a Fanny il 16 agosto del 1833 in cui scriveva che:
“L’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, le solissime degne di essere desiderate”.
Questa sentenza, che sintetizza il pensiero leopardiano, contiene in nuce il concetto che sarà espresso nel canto. Amore e morte è un testo interessante anche dal punto di vista stilistico, in quanto si mantiene in bilico tra l’atmosfera nostalgica e astratta degli idilli e la concezione dell’“arido vero” maturata nel poeta dopo la stesura delle Operette morali.
Se dovessimo trovare un contraltare pittorico al canto di Leopardi sarebbe La morte e la fanciulla di Egon Schiele, quadro dipinto dall’artista nel 1915 dopo la separazione dall’amata Wally Neuzil: nel dipinto viene rappresentata la fine di un amore, che tuttavia si fa presagio di una separazione intesa in senso più ampio. L’opera raffigura un abbraccio quasi scandaloso: i corpi giacciono su un lenzuolo che ricorda un sudario, l’uomo è oscuro e ossuto, tiene la fanciulla con il proprio braccio scheletrico.
La morte rappresentata da Giacomo Leopardi nel suo canto, Amore e morte, è invece una bellissima fanciulla - in opposizione all’iconografia ricorrente e ormai consolidata - alla quale il poeta spera di abbandonarsi. La morte è “bella e pietosa” nella visione del poeta ed è imparentata, quasi affratellata con l’amore, demolendo così la rappresentazione negativa de La morte e la fanciulla: nel canto leopardiano la morte diventa la fanciulla.
Il canto è inoltre introdotto da una solenne epigrafe di Menandro: “Muore giovane colui che al cielo è caro”, che significativamente sarà ripresa nel Dialogo di Tristano e di un amico, l’ultima delle Operette morali - scritta proprio nel 1832, nello stesso periodo del Ciclo di Aspasia - e pubblicata solo nel 1834. Nel celebre dialogo Tristano, che è una proiezione dell’io lirico leopardiano, riprende le parole di Menandro pur senza citarne il riferimento:
chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza
Il binomio amore e morte era dunque un pensiero ricorrente in Leopardi, che certo non si esaurisce in questo canto ma prosegue oltre. La concezione positiva della morte era già presente nel Dialogo di Tristano e fu ciò che fece dare a Musset la definizione di Giacomo Leopardi come “sombre-amant de la mort”, ovvero amante oscuro della morte.
Sul piano poetico, grazie al canto Amore e Morte, il poeta riesce a incarnare le due figure in un simbolo, facendo di loro delle forme personificate ma non umanizzate, formulando così in maniera più ampia la propria trattazione. Il canto, come vedremo, tuttavia non si conclude con un’immagine tragica ma con una visione salvifica: Leopardi è sì l’amante della Morte, come diceva Alfred de Musset, ma non vi è nulla di “oscuro” nel suo amore, anzi, è tutto immerso nel bianco latteo, candido, virginale, che trascolora nel mito ponendosi in un piano superiore a quello mortale.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Amore e morte” di Giacomo Leopardi: testo e parafrasi
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell’essere si trova;
L’altra ogni gran dolore,
Ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente,
Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente;
E sorvolano insiem la via mortale,
Il fato generò Amore e morte insieme come fratelli, il mondo terrestre e neppure quello celeste non hanno altra cosa più bella di loro.
Dal primo (Amore) nasce il bene, ovvero il piacere maggiore che si possa provare nell’universo.
Mentre l’altra (Morte) annulla ogni grande dolore, libera da ogni male e sofferenza.
La morte è in realtà una bellissima fanciulla, dolce a vedersi, non come la dipinge la gente che da lei è intimorita.
Spesso lei ha il privilegio di accompagnare il fanciullo Amore e i due insieme volano sopra le vite mortali.
Primi conforti d’ogni saggio core.
Nè cor fu mai più saggio
Che percosso d’amor, nè mai più forte
Sprezzò l’infausta vita,
Nè per altro signore
Come per questo a perigliar fu pronto:
Ch’ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
O si ridesta; e sapiente in opre,
Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l’umana prole.
Sono loro a confortare ogni cuore saggio, e nessun cuore fu mai più saggio di quello che colpito dall’amore non disprezzò la vita.
Né un cuore fu disposto a provare affanno e lottare per un padrone che non fosse l’Amore. Dove tu porgi il tuo aiuto, Amore, fai nascere il coraggio e l’intero genere umano diventa più saggio nelle azioni e meno arido nei pensieri.
Quando novellamente
Nasce nel cor profondo
Un amoroso affetto,
Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente:
Come, non so: ma tale
D’amor vero e possente è il primo effetto.
Forse gli occhi spaura
Allor questo deserto: a se la terra
Forse il mortale inabitabil fatta
Vede ornai senza quella
Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura:
Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete,
Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio,
Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.
Quando un nuovo sentimento d’amore nasce nel cuore insieme all’amore si sente nel cuore anche un desiderio di morte che infonde una languida stanchezza, una sorta di abbandono.
Non ne conosco il motivo, ma questo è il primo vero effetto dell’amore.
Forse perché gli occhi dell’innamorato si spaventano alla visione di questa terra improvvisamente desolata e inabitabile in assenza di quella nuova e infinita felicità che è sola è presente nei suoi pensieri (la donna amata, Ndr).
Ma peroprio per causa sua, sentendo una tempesta nel cuore, desidera rifugiarsi nella quiete immota di un porto, fuggendo così al desiderio che ruggisce e oscura ogni cosa.
Poi, quando tutto avvolge
La formidabil possa,
E fulmina nel cor l’invitta cura,
Quante volte implorata
Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall’affannoso amante!
Quante la sera, e quante
Abbandonando all’alba il corpo stanco,
Se beato chiamò s’indi giammai
Non rilevasse il fianco,
Nè tornasse a veder l’amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti
Dall’imo petto invidiò colui
Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,
L’uom della villa, ignaro
D’ogni virtù che da saper deriva,
Fin la donzella timidetta e schiva,
Che già di morte al nome
Sentì rizzar le chiome,
Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell’indotta mente
La gentilezza del morir comprende.
Poi quando questo folle desiderio avvolgerà tutto e un invincibile affanno fulminerà il cuore, quante volte sarai implorata Morte con grande desiderio dall’amante per poter porre fine al suo tormento d’amore.
Quante volte la sera e quante volte all’alba abbandonerà il suo corpo stanco, ti chiamerà al suo fianco sperando di non vedere più l’amara luce del giorno.
E spesso quando squillavano le campane funebri, oppure si udiva il canto dei salmi che accompagnavano le persone defunte al cimitero, con grandi sospiri ardenti egli invidiò colui che se ne andava ad abitare nel regno dei morti.
Persino la gente incolta, tra cui il contadino, ignaro di ogni virtù che deriva dal sapere, e la giovane donna timida e schiva che al solo sentir nominare la morte si sente rizzare i capelli in capo osa guardare con sguardo fermo la tomba, gli apparati funebri, rivolgendo il pensiero alla spada e al veleno e, meditando lungamente nella propria mente, comprende la gentilezza pietosa della morte.
Tanto alla morte inclina
D’amor la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener noi può forza mortale,
O cede il corpo frale
Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale;
O così sprona Amor là nel profondo,
Che da se stessi il villanello ignaro,
La tenera donzella
Con la man violenta
Pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.
La morte ha in sé la stessa lezione dell’amore. Una volta giunta a tal punto la passione amorosa nessuna forza mortale può più sopportarla, allora il corpo fragile cede ai terribili eccessi del desiderio e in questa forma la Morte prevale con il suo potere sul fraterno Amore. Oppure l’Amore sollecita così nel profondo il contadino incolto, la dolce giovinetta, che essi pongono fine alle loro vite. In quei casi ridono di loro (della loro morte precoce) gli uomini a cui il destino ha consentito di raggiungere l’età anziana in pace.
Ai fervidi, ai felici,
Agli animosi ingegni
L’uno o l’altro di voi conceda il fato,
Dolci signori, amici
All’umana famiglia,
Al cui poter nessun poter somiglia
Nell’immenso universo, e non l’avanza,
Se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s’al tuo divino stato
L’onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t’inchina
A disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell’età reina.
Me certo troverai, qual si sia l’ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente;
Ogni vana speranza onde consola
Se coi fanciulli il mondo,
Ogui conforto stolto
Gittar da me; null’altro in alcun tempo
Agli uomini coraggiosi, ai felici, agli intellettuali, il destino possa consegnare l’amore e la morte, il cui potere a nessuna altra forza è pari nella vita umana, tranne il fato.
E tu, o bella morte, che ho invocato sempre pietosa sin dalla mia giovane età, se mai fosti celebrata e onorata da me, che ho tentato di ricompensare il disprezzo ingiusto della gente nei tuoi confronti, non tardare a venire da me. Ascolta le mie preghiere, chiudi i miei occhi tristi alla luce, regina di tutti i secoli.
Ma quale che sia il momento in cui ascolterai le mie preghiere, troverai la mia fronte fiera e alta, me pronto a combattere dinnanzi al destino, perché non benedico la morte imbrattata del sangue innocente, come invece osa fare la gente per un’abitudine vigliacca. Troverai me che allontano ogni vana illusione e ogni sciocco conforto.
Sperar, se non te sola;
Solo aspettar sereno
Quel dì ch’io piegai addormentato il volto
Nel tuo virgineo seno.
Non ho sperato che in te sola, mi troverai ad aspettare sereno il giorno in cui potrò finalmente piegare il capo sul tuo candido seno di vergine.
“Amore e morte” di Giacomo Leopardi: analisi e commento
Il canto di Leopardi si apre quasi con un’aura mitica presentando le due figure affiancate come divinità “Amore e Morte”, poi procede svolgendo un parallelismo tra le azioni dell’una e dell’altra. La morte e l’amore ci vengono presentate come due entità equivalenti, tuttavia non appartengono alla sfera umana: si elevano al di sopra degli esseri mortali e persino al di sopra delle stelle.
La personificazione di Leopardi non equivale a un’umanizzazione delle figure: entrambe sono entità universali e, ciascuna a proprio modo, svolge una funzione salvifica. La morte immaginata dal poeta è alata, proprio come l’amore, non vi è nulla di tetro o di oscuro nella sua rappresentazione; ciò che invece la caratterizza è la pietà, un sentimento quindi benefico e positivo.
I soggetti sono astratti - come tutti quelli trattati da Leopardi nel corso del ciclo di Aspasia - e si distaccano quindi dai paesaggi notturni e sognanti dei Grandi idilli. Ora Leopardi trasforma le immagini in un simbolo svincolandosi da ogni riferimento spazio-temporale: alla Morte infatti attribuisce una solenne aura di eternità legandola all’epiteto di “dell’età reina”, regina dei secoli. Alla fine è la Morte a divenire la vera protagonista del canto: è a lei che il poeta si abbandona, dopo aver sopportato il travaglio d’amore.
Va sottolineato che il canto fu scritto nel momento forse più drammatico della passione del poeta per Fanny Targioni Tozzetti: la donna non ricambiava i suoi sentimenti, forse, in verità non li aveva neppure compresi come dimostra uno scambio epistolare intercorso tra la nobildonna e Antonio Ranieri.
Sarà Ranieri, infine, a rivelare a Fanny che era lei la vera Aspasia attraverso una lettera:
Aspasia siete voi, e voi lo sapete, o almeno lo dovreste sapere, o almeno io immaginava che lo sapeste.
Fa riflettere che nel canto Amore e morte, Leopardi tenda a rovesciare l’iconografia tradizionale: la morte è bella e pietosa, una fanciulla gentile, mentre l’amore viene presentato in termini tempestosi e aulici come “grave procella” e “formidabil possa”. L’amore per Leopardi è ciò che travaglia e tormenta, è un affanno, una condizione di infelicità perché spinge a cercare e desiderare la persona amata, a percepire un vuoto, un’incompletezza. Nella parte centrale del canto il poeta racconta le vicende del contadino e della timida giovane che si uccisero per amore, venendo derisi dalla comunità. La morte viene percepita come l’unica alternativa all’amore e, nella conclusione del canto, la dualità iniziale si annulla ed è la Morte sola a trionfare. Nelle sue divine braccia si abbandona il poeta, che ha a lungo intessuto i suoi elogi cogliendo in lei una gentilezza che la gente vile del volgo solitamente non percepisce.
Solo nell’ultima strofa emerge con prepotenza l’io lirico che, fino a quel momento, si era annullato in una narrazione universale che tendeva a raccontare le vicende dell’umanità. Ora invece l’io singolare di Leopardi emerge nell’invocazione alla morte:
Bella Morte, pietosa / Tu sola al mondo dei terreni affanni.
La morte leopardiana ci viene presentata con una sorta di epiteto che, nel linguaggio omerico, poteva essere riservato a una Dea: “virgineo seno”, non molto diverso dalle “bianche braccia” o dal “lungo periplo”. Possiamo individuare in questa rappresentazione un riferimento mitologico alla Dea Diana, spesso narrata dietro l’epiteto delle “virginee braccia”. L’uso del termine “virginale” tende a indicare un colore, il bianco, dunque un’immagine di tenerezza e di purezza.
Leopardi non pone questo riferimento in maniera casuale: il desiderio di riposare su un “virgineo seno” rimanda alla completa purezza di una nascita (forse il ritorno anelato nella protezione del grembo materno?) e anche a una liberazione dagli affanni. Il bianco è un colore nitido, pulito, che non prevede macchie: forse è l’unico colore capace di sconfiggere il nero, di sovrastarlo, di eliminarlo. L’invocazione finale alla morte ha una matrice fortemente classica: alcuni critici vi hanno ravvisato un calco dell’inno di Saffo ad Afrodite.
In questa scena conclusiva, dal forte carattere mitico, dunque Leopardi sta prefigurando una liberazione dai dolori patiti in vita ed è significativo che il canto si chiuda con un’immagine di Morte che è tuttavia speculare a un’unione amorosa, un abbraccio, un’immagine di Amore.
La dualità viene annullata soltanto in apparenza, nel finale risorge, Amore e Morte tornano a essere indissolubilmente uniti, come ben si addice alla mitopoietica romantica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Amore e morte” di Giacomo Leopardi: testo e analisi del secondo canto del ciclo di Aspasia
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