

MARIO DE RENZIS / ANSA / DEF - È morto Andrea Camilleri, su ilpost.it, 17 luglio 2019 - Pubblico dominio
Andrea Camilleri parla del suo bisogno di scrivere e, allo stesso modo di Beckett, dichiara di non saper fare cose diverse dalla scrittura:
scrivo perché non so fare altro.
Egli la sente come:
- tramite generazionale (“Scrivo perché posso dedicare i libri ai miei nipoti”);
- memoria legata alla microstoria d’affetti (“Scrivo perché così mi ricordo di tutte le persone che ho amato”);
- gusto di raccontare (“Scrivo perché mi piace raccontare storie”);
- testimonianza delle letture fatte (“Scrivo per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto”).
Su queste esigenze sviluppa un discorso in cui considera inganni ripetuti e contraddizioni di uno spaccato sociale, nonché dolcissimi, essenziali momenti autobiografici collegati con la sua comunità.
Andrea Camilleri, un raccontastorie siciliano
Andrea Camilleri è raccontastorie che privilegia la modalità orale del conversare affabile, facendo tesoro delle ricchissime esperienze teatrali, le quali gli hanno indubbiamente agevolato non solo la capacità affabulatoria, ma anche la mobilità delle scene espressa nella scrittura spesso non priva di squarci poetici. Porta la Sicilia nel mondo e la racconta in un ampio periodo storico che va dal Settecento a oggi, passando attraverso la dominazione spagnola, il piemontesismo camaleontico e gli anni della Seconda Guerra mondiale, dove trovano spazio un Calò Vizzini e un Lucky Luciano che collaborano per la liberazione dell’Isola, favoriscono lo sbarco degli americani e gestiscono poi le prime istituzioni democratiche.
Non è difficile rintracciare il filo che lega Camilleri al conterraneo Luigi Pirandello, al quale ha dedicato diversi scritti. I motivi dell’essere e dell’apparire, della finzione, del doppio e dello scambio sono abbastanza tangibili nelle sue opere.
Anche il realismo di Verga, almeno in certi romanzi, è facilmente avvertibile per il gusto del contesto rurale aperto alla tradizione popolare, alla saggezza contadina, nonché al senso del tragico.
La sua scrittura passa da Verga a Brancati, da Pirandello a Sciascia, dando spazio al linguaggio del luogo e dei personaggi che lo abitano, sapendone cogliere il risentimento sociale, il piacere del sesso e della ilarità.
Stili, stati sociali e generi: la complessità di Camilleri
Camilleri è così abile da far parlare ogni personaggio secondo il proprio stato sociale.


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L’esempio più evidente è dato dal romanzo Il re di Girgenti, dove i nobili parlano uno spagnolo sicilianizzato. Nel libro La mossa del cavallo il protagonista parla in genovese.
Camilleri sa gestire i tempi dell’attesa e della sorpresa; ama raccontare senza legarsi a un solo genere, variando ambienti, epoche, personaggi e mantenendo la pronuncia e l’intonazione siciliana che non si risparmia la battuta salace, la parlata da cortile e il motto di spirito d’ascendenza plautiana. Accanto al ciclo di Montalbano figurano almeno dieci generi: storico, fantastico, favolistico, civile, saggistico, documentaristico, testimoniale, apologale, apocrifario, pamphlettisico. Libri come La presa di Macallé, Il colore del sole, Le pecore e il pastore, Maruzza Musumeci segnano una pluricomposizione che lo distingue per energia inventiva, versatilità e tenuta di rendimento.
Egli stesso in più occasioni ha lamentato come il famoso commissario abbia oscurato altri suoi lavori, molto più sentiti e voluti. La sua Sicilia è quella dei latifondi: aspra, di scarso verde. sulla quale pare impossibile campare, grigie le rocce e poche le case di pietra messe di sgembo.
Vigàta è invece paesino siciliano di mare dal nome inventato, ma facilmente identificabile con Porto Empedocle: preciso contesto antropologico generalizzabile nella provincia italiana o nel “gran teatro del mondo”. Con un taglio di verismo sociale, rappresenta specificamente l’Isola di poteri feudali ed ecclesiastici, di subalternità e rivolte contadine che convivono con la magia e con i prodigi, con il comico, con il tragico e con il desiderio tipicamente manzoniano della giustizia.
Andrea Camilleri: lingua, potere e dialetto
Indubbiamente Camilleri è scrittore sociale per la coscienza civile e per l’accentuata capacità di ragionamento che si manifesta nella metodologia della ricerca applicata all’indagine poliziesca. La sua scrittura, che muove spesso da un episodio realmente accaduto per svilupparlo e farne un romanzo o un saggio, squarcia i veli dell’impostura e pone al centro un tempo e un ambiente dove il potere, mostrando il volto autoritario, impedisce il miglioramento delle condizioni di vita.
Nel “ciclo di Montalbano”, fatta eccezione della ripetitività dello schema generale della narrazione, gli argomenti di ciascun libro e il modo in cui sono trattati sorprendentemente si rinnovano in un’architettura “giallistica” che coniuga il poliziesco con le denuncia di squallide operazioni dov’è succube anche la realtà dura degli extracomunitari.
Oltre alle tematiche, Camilleri ha compiuto un’operazione linguistica insolita e coraggiosa.


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Nella post-fazione a Il corso delle cose ha chiarito il rapporto di familiarità con la lingua della sua terra natale:
Mi feci persuaso, dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente. Me ne servivo, questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere una domanda in carta bollata o in un biglietto d’auguri. Quando cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello che avevo in mente di scrivere immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio ‘nel parlato di casa mia’.
Preziosa testimonianza, questa, in merito alla scelta della modalità espressiva e comunicativa che scaturiva anche dal fatto che gli veniva difficile scrivere in italiano: così aveva detto al proprio padre che lo esortava a scrivere Il corso delle cose in dialetto (“E perché la devi scrivere in italiano? Scrivila come l’hai raccontata a me”):
Cominciai a riflettere sulle sue parole. Non ritenevo praticabile seguire la strada del dialetto totale, così come era stato con mio padre, perché io volevo farmi capire anche dagli altri. Allora cominciai ad analizzare come parlavamo noi in famiglia. E da quella prima riflessione ho fatto tantissimi tentativi per trovare l’equilibrio nel mio modo di raccontare. Equilibrio che poteva essere rotto dalla scelta delle parole in lingua, perché dovevano essere parole con la stessa valenza, la stessa massa della parola in dialetto. È stato un lungo esercizio [...]. Io ho scritto anche dei libri in italiano, voglio dire completamente in lingua italiana. E continuo a scriverli. Mi sono guadagnato l’italiano, una conquista tardiva ma per me importante. Del resto, anche nei romanzi scritti in vigatese parto sempre da una struttura molto solida in lingua italiana. Il lavoro dialettale è successivo, ma non si tratta di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane.


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Scrive Camilleri in La lingua batte dove il dente duole.
Avrebbe voluto essere incoraggiato da Sciascia a pubblicare in dialetto, ed è noto il diniego dello scrittore di Racalmuto. Alla richiesta avanzatagli, costui rispondeva che Pirandello non aveva mai scritto in siciliano. Ad attirarlo è dunque la sonorità della parola orale.
Il dialetto, annota Simona Demontis, gli si presenta vivo, pulsante, ricco di sottintesi, di potenziale incisività, di intensa vivacità, la vera “lingua madre” nella quale si pensa e si parla nel modo più autentico, più sentito. L’oralità si fa ritmo e il suono che esercita una sì grande suggestione e possiede una tale pregnanza da fargli dimenticare perfino il significato.

Recensione del libro
I colori della letteratura. Un’indagine sul caso Camilleri
di Simona Demontis
Il comico e il tragico, il pensato e il parlato: il dialetto di Camilleri
Bisogna percepire l’andamento musicale della parola per esprimerla nel testo scritto che respira grazie all’alternanza di ritmi. Il suo dialetto, intessuto di termini intraducibili, di espressioni o di modi di dire, di similitudini e di metafore, intrecciandosi con il lessico familiare, è prevalentemente agrigentino ed è integrato dalla lingua italiana in modo da evitare la prevalenza di un codice rispetto all’altro.
Di straordinario “siciliano ibrido” si può parlare dove la sostanza espressiva rimane quella della lingua italiana standardizzata e semplice.
Il nostro scrittore crea lessemi nuovi e traduce spesso in italiano i termini siciliani, ponendo il lettore nella condizione di comprenderne il senso. Il dialetto viene anche utilizzato per accentuare la funzione comico-popolare. La piacevolezza sonora e visiva è innegabile. Le parole si fanno immagini e suoni e si respira un’aria di beffa, di risate spietate e allegre, di irrisione e di gusto piccante nelle scene in cui è dominante la componente sessuale al limite dell’oscenità. È in particolare nei romanzi storici che il comico e il tragico, nonché il pensato e il parlato si fondono armoniosamente.
L’umiltà della parlata locale si fa anche dissacrante e raggiunge effetti esilaranti nel delineare una identità dei siciliani fortemente composta da una molteplicità di contesti in cui, a metà tra l’enfasi e la retorica, spiccano potenti e prepotenti, ragionatori sofistici e cervellotici. Si profila in tal modo l’immagine d’una Sicilia paradigma d’Italia, che, fitta di “bolle di componende”, è insofferente nel periodo post-unitario alla presenza di amministratori provenienti dal Continente che impongono un modo di fare assolutamente distante dal vissuto dei siciliani.


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In tutto questo, entro una dinamica di aspra conflittualità tra classi sociali, la magia e la superstizione convivono con le qualità negative dei preti – dagli appetiti sessuali agli scandali affaristici - che caratterizzano la Vigàta dell’Ottocento, mentre i fatti descritti, sorprendentemente prodigiosi, esprimono differenti visioni sociali. Emblematico resta Il re di Girgenti in cui l’affascinante tematica della sovranità contadina, ricondotta nella Sicilia spagnola sei-settecentesca, attesta l’avventura di Zosimo e dei suoi compagni di viaggio in un grande affresco sociale. Per Gioacchino Lanza Tomasi, le fonti colte discendono dal Don Quijote, da Las novelas ejemplares, dal Buscòn e da altra letteratura picaresca; per Giuseppe Marci, che si richiama allo scritto di Salvatore Silvano Nigro nella fascetta di copertina, l’humus proviene dal basso.
È il “cuntu” a racchiudere la variegata ricchezza della tradizione:
celebra l’epopea di un popolo secondo i modi della realtà meravigliosa, attinge alla fiaba e ai racconti popolari, ai canti e ai contos, alla memoria di un passato reale e fantastico attraverso la quale è possibile costruire un’identità moderna, non ignara della storia e proiettata nel mondo.
Il successo di Camilleri
In conclusione, non può non rilevarsi che la critica favorevole a Camilleri concorda sul fatto che il pregio dei suoi scritti scaturisce in primo luogo dall’uso del suo personalissimo, coinvolgente e appropriato linguaggio, idoneo a ricreare, secondo una logica interna al materiale popolare utilizzato, ambienti, situazioni, personaggi. L’impasto dialettale non è un dato esteriormente folclorico dall’atmosfera locale; non è nemmeno una sperimentazione come era stato per Gadda, ma si costituisce come strumento interpretativo del mondo di Vigàta, visto come briosa, vigorosa e aggregante energia senza la quale i testi del nostro (gialli e romanzi storici) non godrebbero di quella piacevolezza e di quel gusto sentiti dai lettori.

Recensione del libro
Andrea Camilleri. Guida alla lettura
di Federico Guastella
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Virtuosismo linguistico e dialetto in Andrea Camilleri
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