

Barbarossa. I comuni italiani e l’impero germanico
- Autore: Rudolph Wahl
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Il Barbarossa: non c’è niente di più tedesco identitario nella cultura italiana e tutto si deve al Risorgimento, quando l’imperatore svevo venne additato come il nemico da sempre della stirpe italica, dagli scrittori e anche dai poeti, autori di teatro e librettisti d’opera. In un sobrio volume in brossura, le edizioni milanesi Res Gestae hanno riproposto a maggio di quest’anno, col titolo Barbarossa. I comuni italiani e l’impero germanico (338 pagine), uno studio storico-biografico monumentale di Rudolf Wahl, apparso in prima edizione tedesca nel 1941 e tornato più volte sugli scaffali italiani, per i tipi di case editrici diverse.
Federico I Hohenstaufen (Waiblingen nel Baden 1122 – Saleph 1190), re di Germania nel 1152 dopo lo zio Corrado III, re d’Italia nel 1155 e dallo stesso anno imperatore del Sacro Romano Impero, è una delle figure storiche più nominate ma tutto sommato poco esaminate, fino agli approfondimenti di Wahl, biografo tedesco dei sovrani post carolingi (Colonia 1894 - Monaco 1961). Tra i massimi studiosi dell’Europa medievale, ha offerto un contributo decisivo alla comprensione dell’operato del kaiser Friedrich Rotbart e del suo impatto sulla storia del vecchio continente, con le numerose discese in Italia, le alterne vicende belliche, il conflitto contro il potere della Chiesa di Roma e l’ascesa dei Comuni, spinti dalla emergente ambizione di autonomia.
Nel saggio, la statura di Federico si erge prepotente. Il carattere, la determinazione, la lucidità della visione non ebbero pari tra i contemporanei (e tanti successori), uniti alla superiore capacità di apprezzare chiaramente ogni situazione e di compiere le giuste scelte diplomatiche.
Nel 1188, quando decise di partecipare da protagonista alla terza Crociata, bandita da papa Gregorio VIII, aveva pressoché realizzato il progetto di accentramento dei poteri, portato avanti per decenni, non senza ostacoli e battute d’arresto. L’arcivescovo di Colonia era piegato, il papa aveva rinunciato alla lotta, l’opera di Federico si poteva dire compiuta, scrive Wahl, sebbene i Comuni italiani mordessero il freno.
L’’impero si estendeva dal Mare del Nord al regno alleato di Sicilia nel Mediterraneo, dalla Mosa e Rodano a Occidente all’Oder a Oriente. Tra territorio sovrano e alleanze, comprendeva più di metà del mondo cristiano. Le lotte interne erano sotto controllo e il ducato svevo-alemanno garantiva con la sua forza il conseguimento degli obiettivi imperiali. Feudatari laici e religiosi lo riconoscevano alla loro testa e gli si “inchinavano con affetto e reverenza”. Il suo spirito irrequieto non gli dava tregua, però. Aveva quasi settant’anni, ma la tempra era ancora robusta.
La leggenda vuole che una profezia gli avesse predetto che avrebbe conquistato il potere come una volpe, lo avrebbe difeso come un leone e perso come un cane. Non era a quello che pensava, tuttavia, nella primavera del 1190, avvicinandosi alla città di Seleucia, in Cilicia, nel Sud Est dell’Anatolia.
Da crociato aveva cominciato da giovane, combattendo nella seconda al fianco dello zio Corrado e da crociato voleva chiudere. I territori cristiani in Terra Santa avevano subito l’invasione dei Selgiucidi, molti cavalieri europei erano stati uccisi o pativano in catene, la sacra lancia di Longino era nelle mani del Saladino, che deteneva saldamente Gerusalemme. Restavano sulla costa della Siria i porti di Tiro e Antiochia, dove sbarcavano i pellegrini europei.
Pur tergiversando, Federico dette l’ordine della partenza, nel maggio 1189. Aveva raccolto un esercito, non tanto forte come si potrebbe pensare. Del resto, aveva sempre affrontato le spedizioni militari contando più sulla rapidità e sulla risolutezza delle mosse, che sulla quantità degli armati. Non ne ebbe mai a sufficienza nelle calate in Italia contro i Comuni, mentre si è sempre insistito sulla forza e dovizia delle schiere imperiali del Barbarossa.
La morte dell’imperatore è stata comunemente attribuita all’annegamento nel guado di un fiume, in acque basse, per il peso dell’armatura. Il racconto che ne offre Wahl è una cronaca molto dettagliata e parzialmente diversa.
Volendo unirsi al grosso delle truppe a Seleucia, l’imperatore scelse di attraversare il fiume Saleph, che correva verso il mare in una stretta vallata. Già in un primo guado, la forte corrente lo aveva spinto giù dal cavallo, costringendolo a raggiungere a nuoto la riva. Consumato un pasto con i suoi sotto il sole cocente, l’anziano sovrano espresse il desiderio di ritemprarsi con un bagno ulteriore. Pur sconsigliato, non vuole intendere ragioni. “Sazio e accaldato, si tuffò nuovamente nei flutti gelidi”.
Venne colto da congestione e una probabile paralisi cardiaca. Levò le braccia in alto, poi la corrente lo travolse. Era domenica 10 giugno 1190, all’ora del Vespro.
Il cadavere venne cercato, trovato e trasportato in silenzio a Seleucia. La leggenda vuole che il suo corpo giaccia in un castello sotterraneo, pronto a risorgere.
Eppure, maestro com’era nell’arte di aspettare, non aveva mai seguito inopinatamente il primo impulso e agito in maniera avventata. Sorretto da un grande istinto giuridico, tenne sempre fede al primato del diritto e dell’impero: non era lui che possedeva il potere era il potere a possedere lui. Non dava ordini, era la sua funzione a impartirli. All’onore dell’impero sacrificò tutto se stesso, era un regnante dal “pensiero fertile” e il dono di “calcolare magistralmente le sue azioni” non lo espose mai al fanatismo. Il “nemico” degli italiani non è stato affatto un “cattivo” della storia.

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