Binari
- Autore: Monica Pezzella
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
“E allora, adesso, questa Voce dovrebbe chiedersi cosa vuol dire avere una consapevolezza che lui non ha. Fare un po’ i conti con questa coscienza. Quando l’ha visto con Anne e Vittoria sapeva che gli è sempre, da sempre, stato indispensabile uno scarto tra lui che esisteva e lei che non serviva al suo esistere. Con Ale non ne ha bisogno. Lo usa ma non deve necessariamente metterlo su un piolo più basso. Ma lo sa, questo, Marcel? E se non lo sa? (p. 42)”
La strada della comprensione non è diritta: non procede, cioè, in maniera lineare nel tempo da un prima a un dopo, né tantomeno ha una sua logica consequenzialità nello spazio. Non ci sono punti di riferimento, mentre si cerca di appropriarsi del senso, e il tentativo più azzeccato per riuscire una buona volta a padroneggiare la materia trattata consiste, forse, in una sua molteplice analisi, scomposizione e ricomposizione.
Lo sa bene Monica Pezzella, al suo esordio letterario con Binari, pubblicato il 26 novembre scorso da TerraRossa Edizioni nella collana Sperimentali, o comunque lo dimostra in maniera eccellente all’interno di un romanzo che romanzo non è, per brevità da una parte e per struttura dall’altra. Già dal momento in cui si prende in mano il volume, non a caso, si intuisce il sentiero pronto a dipanarsi di fronte a sé: una Voce veste i panni della voce narrante, pur trovandosi spesso a parlare di sé in terza persona con un andamento a tratti metanarrativo, e intanto la storia parte dalla fine, arriva al prima e poi al dopo, per poi concludersi con il suo inizio, a dimostrazione del fatto che fabula e intreccio quasi non si sono mai conosciuti.
Qualcosa di simile accade, d’altronde, ai protagonisti della vicenda: Marcel, che vive in una città non troppo distante dal mare, ma le cui radici sono in una campagna lontana dagli eccessi frenetici e sfrenati dei centri urbani, e un poco più giovane Ale, che si prostituisce per lavoro e si innamora quasi per errore. Si inseguono, si prendono, si perdono, si conoscono, si parlano, si ignorano, si feriscono, il tutto a partire da un discorso tra architetti sul concetto di amore che a tratti è parente di Platone e a tratti di Raymond Carver, e che sarebbe perfino propedeutico all’evoluzione del loro rapporto, se non fosse che a sua volta arriva in un momento in cui i nodi della storia sono già intrecciati fra di loro.
Per seguire i binari richiamati dal titolo, insomma, ci si deve dimenticare quanto Marcel stesso crede di sapere e di desiderare: linearità, equilibrio, prevedibilità. La penna dell’autrice, già brillante e originale nei numerosi racconti ospitati in prestigiose riviste, non ha infatti nessuna intenzione di spiegare, quanto piuttosto di evocare: la si ascolta sciogliersi nell’assenza di virgole, tra un periodare lungo e piano e catene di aggettivi studiate in maniera sapiente nei punti meno immaginabili del testo, e le si lascia il potere di stupire, di sconcertare, di confondere, perché non c’è niente che le riesca meglio.
Il risultato è un’esperienza spiraleggiante, nella quale non si procede né per fasi né per frasi – semmai per episodi simil-circolari, in cui la lingua ora suggerisce atmosfere e ora aggiunge contenuto, ora illumina una zona d’ombra e ora costruisce altri spazi da esplorare, fino a quando dai contorni noir dell’incipit non si arriva alla polpa della narrazione, in un dramma onirico delle relazioni contemporanee che non gioca nemmeno più secondo le regole degli opposti, scardinando ogni possibile linea di demarcazione tra il bene e il male, tra il sano e il malsano, tra la vittima e il carnefice.
Specchio deformante del nostro tempo (e, più in generale, dell’esistenza umana in contatto con le altre) è in particolare il rapporto con il sesso, inteso sia come organo riproduttivo, sia come atto di congiunzione e di piacere condiviso. Dalla violenza all’indifferenza il passo è breve, ben più complessa è invece la frontiera tra l’espressione di sé, l’inclusione dell’Altro e l’interazione in un mondo rigido e vorace. Se ha un merito Monica Pezzella, nell’impresa che ha compiuto e portato a termine senza scivolare né negli stereotipi né in una qualsiasi deviazione dai generi autocelebrativa, è proprio quello di avere piegato la lingua in un inchino, gli archetipi in uno spicchio di luna nuova.
Se c’è un motivo per leggerla, Monica Pezzella, è che la maniera che ha scelto lei di provarci non sembra averla ancora sperimentata fino in fondo nessuno.
“Qualcuno avrebbe potuto desiderare di guardare dentro la loro intimità e la certezza che nessuno potesse farlo lo teneva al sicuro in un’idea accogliente. Un’idea, pensava, di casa. L’idea più simile alla sua idea di casa. L’università lo studio il cantiere la stazione. La stazione. L’umanità non poteva starci ferma, tutti sembravano dispersi nel formicolio, esuli scampati a qualcosa. La casa è un luogo immobile. Ricomporsi, tornare individui. La stazione gli impone di domandarsi come viva l’uomo come si mantenga insieme come faccia ciascuna vita di ciascuna unità in movimento incrociata a centinaia di altre unità in movimento a essere in realtà una linea un percorso coerente con il suo prima e il suo dopo e in costante rapporto di consapevolezza con essi. Come faccia a non perdere contezza di sé e disintegrarsi nel caos. Disorganizzazione apparente. Il fatto che tutti se ne tornino a casa, al proprio insieme chiuso, conferma che dentro il formicaio c’è ordine. (p. 43)”
Binari
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