Un grande classico non ha bisogno di presentazioni, ma è sempre utile riflettere su quanto ha scritto.
Le Bucoliche (edizione Garzanti, 1993, testo latino a fronte) furono scritte dal giovane poeta Virgilio tra il 42 e il 39 a.C. Era un momento difficile per Roma, lacerata come era dalle guerre civili che distruggevano i possedimenti degli Italici costretti a far posto ai veterani di Ottaviano.
Virgilio vive tutto questo e tuttavia riesce a scrivere un’opera che lo farà entrare nei circoli di Roma diventando amico di Mecenate e cominciando la sua carriera come cantore di Roma.
Perché si chiamano Bucoliche?
Bucoliche: canto di pastori. È questo il significato dei dieci canti, ma sono pastori colti, amanti della poesia, riflessivi. In una parola non realistici. La realtà è colta dall’autore attraverso i riferimenti indiretti alle guerre civili e alle devastazioni conseguenti.
I temi delle Bucoliche
La prima bucolica racconta nel dialogo di Melibeo e Titiro il dolore della guerra civile e nello stesso tempo l’esaltazione di Ottaviano, il tutto legato ad una campagna che è malinconica e realistica. Ma non si parla solo di battaglie. Per chi conosce Virgilio anche superficialmente è evidente il senso di rinascita nonostante la violenza.
La quarta egloga è un canto di rinascita legato ad un misterioso bambino che avrebbe cambiato il mondo e che ormai tutti identificano con il figlio di Gaio Asinio Pollione, ma che nel Medioevo è stato considerato Cristo stesso e di fatto la figura di Virgilio è elevata al rango di profeta del Cristianesimo.
Le Bucoliche rimangono nei secoli un modello di poesia che darà origine al mito dell’Arcadia particolarmente importante nel Cinquecento e anche all’inizio del Novecento con Giovanni Pascoli, che è stato il più virginiano dei poeti moderni.
Lettura impegnativa ma anche attuale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Bucoliche
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