Chi sono? è la domanda più difficile di tutte: in questo mondo riusciamo a definire ogni cosa meno che noi stessi. A questo mistero imperscrutabile dell’io ha provato a rispondere un poeta, il più irriverente e rivoluzionario della nostra tradizione letteraria, Aldo Palazzeschi.
Nella celebre poesia Chi sono? (1909), pubblicata nella terza raccolta dei Poemi (Stabilimento Tipografico Aldino, a cura di Cesare Blanc, Firenze, 1909), Palazzeschi delinea un autoritratto ironico, ma tutto sommato compiaciuto, di sé stesso in perfetto stile futurista. Ne risulta una lirica in versi liberi, che sembra ribellarsi al giogo della forma e della sintassi come un cavallo imbizzarrito, delineando un quadro in cui forme e colori giocano in contrasto come in un’opera di Giacomo Balla in cui il segno pittorico si fa simbolo e, infine, astrazione e metafora. Anche l’autoritratto lirico di Aldo Palazzeschi si traduce in estrema sintesi in una riflessione sul ruolo della poesia nel mondo moderno, in un’epoca in cui ormai la figura quasi sacrale del “poeta Vate” di dannunziana memoria si avviava verso il tramonto.
Poesia astratta di luce e movimento, la lirica di Palazzeschi continua a farsi beffe delle nostre rigide definizioni identitarie continuando a esercitare le sue mirabolanti acrobazie in bilico sulla fune del linguaggio.
Scopriamone testo, analisi e parafrasi.
Chi sono? di Aldo Palazzeschi: testo
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
«follìa».
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
«malinconìa».
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
«nostalgìa».
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Sono il saltimbanco dell’anima mia.
Chi sono? di Aldo Palazzeschi: parafrasi
Io sono forse un poeta? Certamente non lo sono. La penna della mia anima riesce a scrivere una sola strana parola: follia. Sarei dunque un pittore? No, nemmeno. La tavolozza della mia anima conosce un solo colore: la malinconia.
Sono allora un musicista? No, nemmeno. Perché la tastiera della mia anima non conosce che una nota che ha suona come la nostalgia. Allora, che cosa sono io?
Per rispondere metto una lente davanti al mio cuore, così che la gente lo veda chiaramente e possa finalmente capirlo.
Chi sono io? Sono il saltimbanco della mia anima.
Chi sono? di Aldo Palazzeschi: analisi e commento
La domanda che dà avvio alla lirica è custodita nel titolo: “Chi sono?” che esprime il nodo cruciale, il cuore del problema. A partire da questo interrogativo Palazzeschi ci fa smarrire nel labirinto dell’indagine esistenziale in una foresta di simboli e di parole.
Con un tono irriverente e giocoso il poeta ci guida alla scoperta dell’identità, senza trascurare le inquietudini e i drammi che questa difficile ricerca comporta. La reiterazione della domanda, Chi sono?, che torna nella lirica come un ritornello ossessivo ripropone la difficoltà dell’impresa, il lavoro di scavo nell’inconscio che quest’ultima comporta.
Le parole chiave che il poeta ci propone, che appaiono definizioni isolate nel verso, sono per l’appunto legate a una semantica dell’inquietudine: “follia”, “malinconia” e “nostalgia”, sono i termini sui quali Palazzeschi fonda il proprio autoritratto, i colori primari che compongono il suo quadro futurista.
La prima definizione che Palazzeschi rifiuta, si badi bene, è proprio quella all’apparenza più aderente alla sua persona: dice di non essere un poeta. In questo riprende in parte la lirica di Sergio Corazzini Desolazione del povero poeta sentimentale che recita:
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?
Palazzeschi rifiuta il modo tradizionale di intendere la figura del poeta, se ne fa beffe con una pernacchia irriverente. L’unica parola che la sua anima è in grado di scrivere infatti è quella di “follia”; il che contribuisce a proiettarci nel tono centrale della poesia, che appare come una satira dal retrogusto tragico.
Trascinandoci nelle spirali insidiose dell’identità, Aldo Palazzeschi procede per negazioni: non è neppure un pittore, sebbene la sua caratteristica cromatica sia la “malinconia”, in ultimo rifiuta la definizione di musicista ma adotta come timbro musicale la “nostalgia”.
Dopo aver posto una lente simbolica sul proprio cuore, in modo che la gente possa vederlo in profondità, Palazzeschi sceglie la definizione che gli è propria, quella di saltimbanco, colui che si esibisce nelle piazze per pochi spicci e mette il proprio corpo alla mercé del pubblico. Il poeta - in conclusione - è colui che vende la propria arte, mostrando alla gente la sua intimità più profonda senza alcun pudore. Il suo cuore viene dato in pasto al pubblico ricevendo in cambio pochi spicci e, magari, persino qualche insulto.
Nell’immagine finale del saltimbanco possiamo anche ritrovare un riflesso del clown, la maschera tragico-comica del pagliaccio che riflette l’essenza della poesia stessa.
La vita quotidiana ci costringe a nascondere e a camuffare la nostra identità, a indossare una maschera a seconda di contesti e situazioni. Ma la nostra anima nel profondo è libera e folle e autentica, compie acrobazie proprio come un saltimbanco nella piazza.
Tramite l’identificazione con la figura del saltimbanco, Palazzeschi vuole anche proporre una nuova definizione di “poeta”: non si tratta più del poeta vate, ma di un personaggio marginale o emarginato, che la folla ascolta oppure sbeffeggia. Segno che il ruolo dell’artista-letterato stava assumendo connotati ben diversi nella società del Novecento.
Attraverso una poesia - irriverente solo in apparenza - Aldo Palazzeschi ci stava fornendo il ritratto più compiuto di un’epoca, presagendo con inquietudine un futuro ormai sempre più prossimo in cui la poesia avrebbe assunto nuove forme espressive, mutando in nuovi modelli di comunicazione a uso e consumo di un pubblico pagante.
Si prefigurava all’orizzonte una società in cui la parola “Cultura” non avrebbe più avuto lo stesso prestigio d’un tempo, perché sarebbe stata posta alla mercé del profitto di un capitalismo votato al consumo, alla compra-vendita, a una parola ridotta ormai a merce.
In questo contesto anche il cuore, la dimensione più intima dell’autore e del poeta, diventa mercanzia: la società ti morde il cuore e te lo mastica, lo sminuzza, lo fa a pezzi esponendolo al pubblico ludibrio e poi lo rivende attraverso le parole d’altri.
E Palazzeschi l’aveva presagito in una poesia di nome e di fatto.
Sono il saltimbanco dell’anima mia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi sono? di Aldo Palazzeschi: un autoritratto futurista in poesia
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