Con l’Africa dentro
- Autore: Gabriele Tinti e Sumbu Kalambay
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mimesis
- Anno di pubblicazione: 2010
La storia di un pugile africano naturalizzato italiano, un piccolo volume che mi ha incuriosita, scritto dal critico d’arte Gabriele Tinti, la cui sua passione per il pugilato è stata una forza trainante nel ricercare molteplici rapporti e relazioni tra arte, letteratura e sport. Un libro fuori collana che è emerso tra i tanti in un piccolo mercatino: la biografia di un grande campione per il quale l’Italia è la seconda patria, una vicenda che ci appartiene e che va ricordata. Con l’Africa dentro (Mimesis, 2010) racconta la storia di Sumbu Kambalay, una storia affascinate e intrigante, per il racconto non solo della vita di un campione che con le sole sue forze ha messo in gioco ogni istante della sua vita, ma anche di un ragazzo il cui sacrificio e sudore lo hanno portato a essere amato e stimato in tutto il mondo dello sport.
"La boxe tenta chi è capace di sentire, chi è attraversato da rabbie e nostalgie", scrive Emanuela Audisio nella prefazione al libro, "il pugilato è selvaggio e doloroso, si fa con il corpo e non basta, ci vogliono anche lavoro e fatica, disciplina e morale".
Il pugilato ha affascinato fin dai suoi albori autori classici, Omero, Virgilio, e tanti scrittori attratti dai lottatori sulle punte dei piedi alla ricerca di un equilibrio tra attacco e difesa, come Lord Byron, John Keats e Arthur Conan Doyle che ha fatto del suo Sherlock Holmes un provetto pugile. E altri grandi ammiratori della nobile arte hanno poi pubblicato i loro racconti sul pugilato, tra i quali Ernest Hemingway, Osvaldo Soriano, Luis Sepulveda.
La boxe è uno degli sport in assoluto più artistici che continuerà a generare ammirazione nella letteratura, come nel cinema: perché non è una lotta di idee, ma di sudore e sangue, e lo si affronta sottoponendosi a regole specifiche. Ha in sé la metafora della lotta per vivere. Il ring è un perimetro che rappresenta la drammaticità della vita e i suoi conflitti: lotta, prova di resistenza, fisicità, agilità, partecipazione. Con un grumo di tensioni si combatte per il proprio riscatto, verso la propria liberazione.
Nato in una terra dove c’è sempre stata la guerra, in Congo, Sumbu Kalambay, finiti gli studi iniziò a lavorare per sostenere la famiglia come elettricista in una delle miniere della città di Lubumbashi. Un territorio ricco di giacimenti di oro, stagno e diamanti, un ventre ricco di un’Africa che avrebbe potuto dare prosperità e invece divenne terra di conquista per una storia di schiavitù e guerre, per una storia di bianchi. Kinshasa, la capitale, era il suo sogno, Alì il suo mito e fu così che iniziò a imparare l’arte della boxe. Nel Sud del nostro mondo le palestre sono le strade e il sacco per boxare è spesso una vecchia gomma di un auto appesa a una corda, ma la voglia di farcela è tanta. Alì-Foreman era stato un match che lo aveva stregato da subito, gli affondi e la danza di colui che era riuscito a far porre l’attenzione sulla lotta contro i soprusi che i bianchi avevano inflitto ai neri.
“Uno sport nato tra conflitti e schiavitù, tra sudore e commerci, tra delitti e castighi. Dove l’uomo nero ha dimostrato di non essere inferiore all’uomo bianco."
Da dilettante Kalambay ha affrontato novantacinque incontri e a qualcuno, nell’osservarlo, "parve rivedere Alì danzare sul ring". Arrivò in Italia una mattina di settembre del 1980, aveva 24 anni. L’inizio fu faticoso nell’imparare la lingua e nel prepararsi all’esordio in Austria. Un campione anche nella vita, dopo tre anni dal suo arrivo trovò l’amore, Rosa, che a bordo ring era sempre pronta a incitarlo. E fu così che Kalambay, Patrizio in onore del campione Patrizio Oliva, divenne pronto a scalare le classifiche europee e mondiali tra vittorie e sconfitte sul ring come nella vita, tra mal d’Africa e la sua voglia di riscatto. Di una classe inarrivabile, Nino Benvenuti lo considerò il suo erede. Era arrivato all’apice della sua carriera e, come si sa, "dalle vette non si può che scendere". Kalambay dopo il ritiro dal ring ha continuato ad allenare giovani tra le dolci colline delle Marche e a rimanere affascinato dal nostro Paese che lo aveva accolto come un suo figlio, "la sua gentilezza e l’aristocrazia del suo cuore lo hanno fatto amare da tutti".
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