Cose che il buio mi dice
- Autore: Carolyn Jess-Cooke
- Casa editrice: Longanesi
- Anno di pubblicazione: 2012
Cose che il buio mi dice (Longanesi, 2012) di Carolyn Jess-Cooke è un romanzo che mi colpì subito sia per il titolo che per la copertina. Entrambi mi ricordavano l’indimenticabile film Il sesto senso dove un bambino aveva la capacità di vedere i morti e il suo compito era ascoltarli. In realtà nonostante qualche similitudine iniziale questo testo differisce molto dal film pur mantenendo la stessa atmosfera carica di suspense e mistero.
Alex è un bambino di 10 anni che vive a Belfast. Ha subito un trauma molto pesante in seguito alla morte del padre e continua ad avere una vita molto difficile a causa della depressione in cui è piombata la madre. Infatti dopo il secondo tentativo di suicidio della donna, il bambino viene affidato alle cure di una giovane psichiatra di nome Anya, la cui vita è anch’essa carica di mistero e tragedia.
Il bambino, che vive avvolto dalla solitudine e dall’incomprensione, ha due soli amici con cui condividere i momenti delle proprie giornate: un cane e un demone di nome Ruen. Questo amico immaginario (forse) non lo abbandona mai, lo ascolta, gli parla, addirittura gli dà dei consigli su come salvare la madre dalla depressione e lo incita a fare o non fare determinate cose. Ruen appare come una figura profondamente oscura, risalita direttamente dall’inferno e capace di suggerire anche azioni terribili come l’omicidio.
Il titolo non tradisce da questo punto di vista: le cose che il buio mi dice si riferiscono direttamente alle parole del demone che spinge Alex a compiere anche quello che lui stesso non vuole. D’altro canto la psichiatra che lo prende in cura è anch’ella vittima di un passato molto difficile che l’ha vista affrontare e soffrire la malattia della figlia che poi ha perso. Durante lo svolgersi della storia Anya si convincerà sempre di più che Alex soffre della stessa malattia della figlia, schizofrenia infantile, e la sua battaglia sarà tutta rivolta a convincere quel bambino, apparentemente solo ed indifeso, che Ruen non esiste, esiste solo nella sua testa.
L’oscurità prende dunque il sopravvento, il libro è carico di echi soprannaturali e anche di dettagliate analisi psicologiche che non lasciano nulla al caso. Basta osservare per qualche secondo la copertina della versione italiana, migliore di quella originale troppo fiabesca, per essere immediatamente catturati da quello sguardo infantile che d’infantile ha davvero poco. Uno sguardo profondo, carico di consapevolezza, ma soprattutto privo di paura. Alex infatti imparerà grazie all’aiuto di Anya a non temere i propri demoni, le proprie paure e scoprirà che è possibile venire fuori dal baratro in cui il nostro passato ci ha fatto sprofondare e che la chiave è lasciarsi aiutare, perché molto spesso da soli non si va da nessuna parte.
E’ molto forte l’introspezione psicologica presente nel libro che riguarda sia l’animo di Alex sia quello di Anya. Non a caso infatti il romanzo è suddiviso in capitoli che si alternano tra la voce dell’uno e dell’altro, in modo che uno stesso evento possa essere compreso da entrambi i punti di vista. Questo non fa altro che accelerare il ritmo e rendere la lettura molto piacevole e mai noiosa.
Dopo un inizio dirompente, la parte centrale e finale perdono un po’ di carica, scivolando lentamente nella prevedibilità e nel già detto, proponendo alla fine un finale aperto che per certi versi delude le aspettative. Infatti proprio a questo proposito è importante chiarire che Cose che il buio mi dice non è inseribile in nessun genere narrativo. Apparentemente e leggendo la sinossi potrebbe trarre in inganno la trama e lasciar credere che si tratti di un horror con spaventosi risvolti soprannaturali ma poi ci si rende conto che la maggior parte del libro è impuntato sulla psicologia dei personaggi ed in particolar modo quella di Alex, nella cui mente risiede tutto il mistero. A quel punto allora potrebbe essere definito come thriller psicologico ma anche questa definizione fa acqua da tutte le parti.
Il finale autoconclusivo, senza che a molte domande venga data una risposta, contribuisce alla sorpresa e anche a quel pizzico di amaro in bocca che si avverte una volta chiuse le pagine. Dovrebbe essere tutto finito, eppure si ha la sensazione che non sia così. Probabilmente l’autrice ha preferito lasciare a ciascun lettore la possibilità di interpretare la verità a modo suo, una scelta che non risulta del tutto negativa. In fondo la domanda che ci si pone fin dall’inizio è per tutti la stessa: Ruen esiste davvero o solo nella testa di Alex? Sappiate che l’autrice farà il meno possibile per farvi capire cosa sia vero e cosa no, provando a dare una risposta che indirizza la storia verso una zoppicante conclusione in cui è la razionalità a prendere il sopravvento, ma a chi ha letto questo libro con passione e commozione non basta.
Lo stile è quello che rende questo romanzo eccellente. Jess dimostra di conoscere bene l’animo umano, le sue paure, le incertezze, le malattie in cui ci si imbatte con la mente pur senza volerlo. Il linguaggio è asciutto, chiaro, privo di fronzoli e carico di parole che sono capaci di creare ansia e paura quando è necessario.
Il demone di Alex suggerisce sottilmente come il bambino debba guardare il mondo e cosa debba prendersi in esso e lo stesso fa l’autrice che con maestria e precisione riesce a suggerirci tanti punti di vista per poi lasciarsi soli davanti alla porta della scoperta. Purtroppo quando l’apriremo troveremo solo buio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cose che il buio mi dice
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