Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo
- Autore: Maria Serena Mazzi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2017
Donne che si ribellavano, che si sottraevano ai compiti ancillari loro imposti, alla subalternità, alla sottomissione all’uomo: padre, fratello, marito, capofamiglia, padrone, cardinale, vescovo, inquisitore. Che non ubbidivano ad una società che le voleva succubi. Eroine e paladine di un ruolo o anche solo renitenti, profughe, tanto più in un’epoca insensibile ai diritti di parità qual è stata l’età medievale. Si badi che le loro fughe sono state sempre raccontate dagli uomini: biografi, notai, pubblici ufficiali, magistrati, giudici. Finalmente è una donna a farlo, in un breve saggio per il Mulino, “Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo” (Universale paperbacks, maggio 2017, pp. 180, euro 14,00). A raccontare quelle evasioni da una soggezione senza altra via di riscatto è Maria Serena Mazzi, ordinaria di Storia medievale che ha insegnato nelle Università di Firenze e Ferrara, autrice di numerosi testi, compreso il precedente “In viaggio nel Medioevo”, edito per il Mulino nel 2016.
Quando hanno viaggiato, dice, le donne non hanno scritto in prima persona dei loro viaggi, tranne rare eccezioni. Quando sono fuggite, non hanno raccontato delle proprie fughe. Quando hanno avuto motivi per “andare”, non hanno spiegato le ragioni di scelte, evasioni, paure, non hanno lasciato cronache di quegli spostamenti o resoconti di come li abbiano vissuti. Al loro posto lo hanno fatto ancora una volta e sempre gli uomini.
Per l’età medievale, le donne sono in primo luogo quello che il filtro maschile ha trasferito. Negata loro la parola, gli uomini hanno interpretato pensieri, desideri, sentimenti, niente affatto propri. Per una volta in più le hanno sottomesse: un po’ perché spesso le donne non erano alfabetizzate o se riuscivano a scrivere, osserva la professoressa Mazzi, imparavano in tarda età, con fatica e non senza errori.
“Insomma gli uomini hanno parlato costantemente al loro posto, senza riuscire del tutto a ridurle al silenzio”.
Senza voce, eppure “andavano”, in tanti modi. Per disperazione, ma non solo, visto che per quella c’era soprattutto il suicidio, epilogo risolutivo. È che c’erano altre fughe, messe in atto
“recidendo simbolicamente i legami”
da intellettuali perseguitate, da visionarie inquisite, da eretiche inseguite, da mogli infelici, monache rinchiuse a forza, schiave maltrattate e abusate, prostitute private di ogni libertà e seviziate.
Qualunque fosse il modo di fuggire, dal mettersi in viaggio al murarsi in una cella, le donne intendevano modificare l’esistente con la loro ribellione, rifiutando un presente e una realtà inaccettabili. Si fuggiva per inquietudine, per opposizione, per cercare la salvezza, per rompere vincoli imposti, per evadere dalle istituzioni segreganti, per sottrarsi alle violenze della guerra, al comportamento repressivo della Chiesa, alle ingiustizie dei tribunali, per respirare aria di libertà, abbandonando dietro di sé regole, imposizioni, limiti.
Viaggiare? Indubbiamente era pericoloso per una donna sola. Ci voleva coraggio, preparazione, energia trasgressiva e forza di volontà. Ci voleva anche fegato a procedere di giorno, ma soprattutto dopo il tramonto, senza farsi notare da una popolazione notturna di gente senza scrupoli. Ci voleva tanta volontà di allontanarsi da chi vantava diritti su di lei, prerogative di custodia, correzione, punizione, castigo, da chi decideva al suo posto, parlava per lei, la costringeva a una scelta religiosa, esercitava diritti di rappresentanza senza delega, la escludeva dal mondo della cultura, del lavoro, della vita sociale e civile.
Molti dei personaggi femminili che popolano “Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo” hanno dovuto lottare anche solo per studiare, imparare, scrivere, parlare, muoversi liberamente. Non parliamo nemmeno di insegnare e governare.
“Ognuna di quelle esperienze, ognuna di quelle ribellioni individuali, di disubbidienza alle leggi maschili, di resistenza alle ingiustizie e di rifiuto delle imposizioni ha deposto una minuscola pietra per la costruzione di un cammino comune, contribuendo con lentezza e con fatica a trasformare nel tempo idee, comportamenti, regole”.
Coraggio, fermezza, disperazione, ribellione: le donne medievali evadevano da condizioni di vita insopportabili, emigravano da luoghi trasformati da una guerra in paesaggi di distruzione, inseguivano una speranza di vita e di lavoro migliori. Non poche voltavano le spalle a mariti violenti, scappavano da percosse e stupri, cancellavano un matrimonio che le aveva sovraccaricate di fatica e povertà, in compagnia di partner che non avevano scelto, spesso molto più anziani. Qualcuna lasciava un convento nel quale non era comunque entrata di sua volontà, qualcun’altra tentava di sottrarsi a creditori, sfruttatori, padroni. E c’era anche chi si chiudeva alle spalle l’uscio di una casa soffocante, la quotidianità di un ruolo familiare opprimente.
Non sappiamo quale idea del proprio andare avessero le donne, quale consapevolezza, fa notare l’autrice. Dagli uomini veniva loro attribuita invece
“un’irrequietezza malsana, una leggerezza sventata, una curiosità superficiale, una voglia di cedere agli impulsi senza il controllo della ragione”
di inseguire piaceri, di cedere a passioni fugaci.
Pensieri, riflessioni, ansie, speranze, obiettivi, maturità, immaturità, vanno cercate nelle “piccole storie di ognuna”, citate da Maria Serena Mazzi in “Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo”.
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