La torre d’avorio
- Autore: Paola Barbato
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2024
Ci sono molti modi per fare del male a se stessi e agli altri, ma qual è il confine fra normalità e patologia? Esiste un legame di causalità tra malattia mentale, violenza e crimine e tra motivazione e colpa? In caso di patologie psichiatriche, qual è il rapporto tra libero arbitrio, ovvero il fondamento della capacità d’intendere e di volere, e la responsabilità colpevole?
Per uno scrittore non si tratta solo di controverse questioni astratte con risvolti che possono riguardare ambiti come la morale o la religione, ma di un urgente problema narrativo che Paola Barbato avrà sicuramente affrontato nel suo romanzo La torre d’avorio (Neri Pozza, 2024).
La protagonista, Mara Paladini – del suo vero nome, Mariele Pirovano, ha conservato solo le iniziali – è affetta da sindrome di Münchhausen per procura, una condizione psichiatrica che deve il nome all’omonimo barone tedesco vissuto nel XVIII secolo, in cui un genitore o un’altra persona che si prende cura, di solito, di un bambino simula o provoca una sua malattia, così da attirare attenzioni e compassione, poterlo curare ed eventualmente avere il merito della guarigione. Mariele, che è stata una donna molto avvenente ma intimamente convinta di essere inadeguata come moglie e come madre, ha avvelenato il marito e i due figli, Andrea e Clara, in modo sistematico, dopo aver coltivato le piante tossiche e preparato lei stessa il veleno. Lo ha fatto fino al giorno in cui ha sbagliato la dose di digitossina, e ha dovuto confessare.
Sono passati tredici anni; dopo essere stata condannata e aver scontato la pena in una struttura psichiatrico-giudiziaria, Mara ora vive isolata in un appartamento di Milano, i cui locali o, come lei li chiama, settori, sono contrassegnati da lettere, in una palazzina di poche unità non sempre abitate. I suoi contatti con l’esterno sono ridotti al minimo indispensabile – Valeria, l’assistente sociale a lei assegnata, i commessi del supermercato notturno, il redattore che revisiona le sue traduzioni dal russo, il giovane corriere che consegna la maggior parte dei suoi acquisti – anche perché è convinta di poter essere nuovamente pericolosa. Non ha più saputo nulla della sua famiglia e ha costruito una vera e propria prigione, “la Torre”, fatta di scatoloni bianchi tutti uguali, impilati lungo la maggior parte delle pareti e fino al soffitto secondo un ordine preciso, dove ha catalogato e seppellito tutti gli oggetti del suo passato e anche se stessa.
La crepa che fa crollare questa Torre, all’inizio, ha l’aspetto di un’ombra: una macchia di umidità quasi invisibile, che appare sul soffitto in corrispondenza del settore F, il bagno. Quando però la macchia diventa un gocciolio continuo, Mara è costretta, seppur dopo molti ripensamenti, a uscire di casa e a salire al piano di sopra.
Spiando dai uno dei tre fori che ha praticato con una sigaretta nella tenda dell’unica finestra libera affacciata sulla strada, ha notato che l’appartamento sopra il suo viene occupato, ogni due settimane circa, da un uomo sulla sessantina, distinto e dall’aspetto molto curato. Lo ha sentito rientrare la sera prima, poi il silenzio.
Bussa e, al secondo colpo, la porta si schiude. L’appartamento, gemello del suo, sembra deserto, fin troppo pulito e ordinato. Una sottile scia d’acqua viene verso di lei. La porta del bagno con i vetri smerigliati lascia intravedere la luce accesa: forse l’uomo si è sentito male o è morto con il rubinetto aperto. E in effetti è così che lo trova, ma capisce subito qual è la causa della morte. Non può sbagliarsi: avvelenamento da digitossina, la stessa sostanza che ha usato lei.
Forse Mara potrebbe riuscire a provare la propria innocenza, ma in questo momento la fuga – che per altro ha pianificato da tempo – le sembra l’unica via d’uscita. Le sole persone alle quali Mara è rimasta in qualche modo legata e a cui può chiedere aiuto sono quattro donne che hanno condiviso con lei un periodo di detenzione nella struttura psichiatrica: lì hanno costruito una solida amicizia basata sulla reciproca comprensione e fiducia. Sono Moira, Fiamma, Maria Grazia e Beatrice. Insieme affronteranno la fuga su e giù per l’Italia, saranno al centro di inseguimenti, cercheranno invano di nascondersi e lasceranno dietro di loro una lunga scia di cadaveri, omicidi che, in modo piuttosto evidente, hanno come unico scopo far apparire Mara colpevole.
I capitoli dedicati a questa drammatica avventura si alternano a quelli che si distinguono anche per il carattere corsivo, in cui rivive, retrospettivamente, la vicenda della protagonista e quella della maggior parte dei personaggi. Paola Barbato riesce a farci desiderare di conoscere meglio queste alleate di Mara, complici nella sorellanza e nel dolore. Tutte hanno innegabilmente commesso azioni innaturali, violente, non si possono difendere e tuttavia vorremmo riuscire a capirle, grazie alle rivelazioni di aspetti ancora sconosciuti della loro personalità.
Scavando nel passato più o meno lontano, emerge che ciascuna ha una precisa e definibile ragione per cui ha commesso un crimine e, anche se è sbagliato mettere sullo stesso piano le colpe di cui si sono macchiate, le cinque donne hanno in comune il fatto che, nonostante il reinserimento nella società, non sono “guarite”:
Tra loro passava un dialogo silenzioso, nel quale l’amica le faceva notare che la sua competenza in fatto di veleni non si era minimamente appannata e Mara le sottolineava che proprio questa era la conferma della sua pericolosità, questo l’errore alla base della sua scarcerazione anticipata. Non ci hanno recuperate, nessuna delle due.
Grazie a una scrittura efficace e accurata, dove nulla è lasciato al caso ma pianificato nel dettaglio, l’autrice compie un viaggio travolgente nell’animo e nella psiche femminile ed esplora comportamenti etichettati come malvagi, soffermandosi sugli effetti irreversibilmente tragici della violenza sull’animo umano.
La trama è ben equilibrata nelle sua parti: descrizioni, azioni, dialoghi e pensieri (quelli di Mara sono in corsivo) si alternano dando ritmo a un testo ricco di colpi di scena. Oltre a suscitare interesse per gli argomenti trattati – da una patologia psichiatrica non molto conosciuta alla coltivazione di piante potenzialmente pericolose fino all’estrazione del veleno –, La torre d’avorio solleva interrogativi sulla vera natura dell’animo umano, sulla sofferenza psicologica invisibile ma reale, sulla possibilità di guarigione, sulla redenzione e sul perdono. Potremmo ritrovarci in lacrime, commossi, disgustati, infastiditi, offesi o affascinati, ma da questa lettura non si esce indenni.
La torre d'avorio
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