L’uomo dal fiore in bocca
- Autore: Luigi Pirandello
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Italiana
Attaccarmi così - dico con l’immaginazione - alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: - aderire, aderire con essa, continuamente alla vita degli altri... - ma no della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quando riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire... sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. - Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì...
Questo è un brano desunto dal testo teatrale in un atto, di breve lunghezza ma di elevata tragicità, L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, derivato con poche varianti dalla novella Caffè notturno (1918), poi intitolata La morte addosso (1923), facente parte delle Novelle per un anno.
In lui spesso le opere teatrali traggono spunto da alcune opere scritte anteriormente. La rappresentazione avvenne a Roma il 21 febbraio 1923. Il dialogo fra due personaggi – un pacifico, tranquillo avventore preso da banali abitudini di vita familiare, che ha perduto il treno per un minimo ritardo, e l’uomo dal fiore in bocca che gradualmente rivelerà il suo male (un tumore al cavo orale) - si svolge a notte fonda nel bar di una piccola stazione di provincia. Ed è nel corso della conversazione – in realtà è più un monologo che un dialogo (il secondo parla continuamente e il primo, limitandosi ad ascoltare, si inserisce raramente nel discorso con battute ovvie e scontate) - che l’uomo dal fiore in bocca fa presente il piacere dell’immaginazione che, ben più ampia rispetto alla conoscenza limitata ai soli dati in esame, penetra nella vita degli altri. Non esercita il potere dell’immaginazione sulla gente da lui conosciuta che sanno di lui, ma soltanto sugli sconosciuti che lo fanno sentire libero da ogni condizionamento. E lo fa con pignoleria, immedesimandosi nel loro modo di essere.
Il motivo di tale suo atteggiamento trova spiegazione in un altro brano che merita di essere evidenziato: quello in cui spiega con tristezza al suo interlocutore la vanità della vita. La giudica "sciocca e vana", ed è meglio farla finita poiché il gusto della vita è imprendibile. Sempre sfuggendo, non si lascia assaporare. Una consolazione la trova nei ricordi che vivono in noi. Ma anch’essi ci tengono legati a "tante stupide illusioni":
Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. E questo è da dimostrare bene sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, c’è, ce le sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati… Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noja… e arrivo finanche a dire, questa che ora per noi è una sventura, una vera sventura…sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà… che gusto, queste lagrime… E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… quando si sa che è questione di giorni.
Illusoria è dunque la volontà di vivere ed è per questo che l’uomo dal fiore in bocca sfugge perfino alla moglie: vestita di nero, di nascosto lo segue nell’ombra per potergli stare vicino sia pure a distanza. Lui invece vuole allontanarla per staccarsi da tutte le cose che l’hanno reso tranquilla. La tranquillità ormai non gli appartiene e il nichilismo è angosciante. Tutto questo ha una spiegazione nel suo essere condannato a morte:
Venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua. Sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: - Epitelioma, si chiama. Pronunzi, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte capisce? È passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: - Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi. Ora mi dica lei, se con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casa tranquillo e quieto, come quella disgraziata vorrebbe.
Sono le battute finali a rivelare, ancorché nel tragico del male terminale, il senso dell’umorismo. L’uomo dal fiore in bocca si congeda dall’avventore con parole penosamente allegre:
Mi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura. Me le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra… E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione. – All’alba, lei può fare la strada a piedi. – Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso mi raccomando. Buona notte, caro signore.
Il sentire addosso la morte è dunque il motivo fondamentale del soliloquio in un’atmosfera non a caso notturna. Quando l’individuo sa che gli restano pochi mesi da vivere allora la vita si svuota di significato, perde ogni suo valore e non resta altro che disprezzarla quando la morte è vicina. Un modo questo di esorcizzare il dolore. Non è un caso che a un certo momento, nel testo, viene fatto il riferimento al terribile terremoto di Messina del 1908 per dire che si è soggetti alla casualità di eventi che estinguono la vita umana
[...] le domando se crede possibile che le case d’Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale. Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate! Immagini i cittadini di Avezzano, i cittadini di Messina, spogliarsi placidi placidi per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, mettere le scarpe fuori dell’uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuola di bucato, con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti. – Le sembra possibile?
Pirandello insiste sulla perdita della tranquillità quando si sa che la morte s’avvicina e la vita definitivamente si compie. Ad essa, che è uno stato di calma, di quiete fisica o spirituale, si oppone l’angoscia che si esprime in una condizione abbastanza dolorosa, oppressiva e intensa della cui causa il protagonista è consapevole.
Il vuoto interiore crea il distacco dall’esterno e modifica di conseguenza la percezione della realtà, mentre il rifugiarsi nella solitudine fa allontanare perfino dagli affetti più cari. Tutto questo si ricava dalla psicologia del protagonista, il quale trova pur sempre un appiglio nei ricordi e nel gusto delle piccole cose che vanno fino all’ultimo vissute, per esempio:
Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? con tutta la buccia è vero? Si spaccano a metà: si premono con due dita, per lungo… Come due labbra succhiose… Ah, che delizia!
La morte incombente si rivela dunque drammaticamente, e la bravura di Pirandello sta proprio nell’avere rappresentato tale situazione con una intensità data dal ritmo dei periodi, dalle pause e dalle riprese.
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