Quando vinse il premio Nobel per la Letteratura, nel 1975, Eugenio Montale tenne un discorso memorabile, dal titolo: È ancora possibile la poesia?
Il genio di Montale si evince già dall’accoglienza che il poeta riservò alla notizia della vittoria del più prestigioso premio letterario, il 24 ottobre del 1975.
Chiese il tempo di fumare un’ultima sigaretta in compagnia degli amici e a un giornalista del Corriere della Sera che lo incalzava domandandogli un commento a caldo, rispose:
Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?
Tra i favoriti per il Premio quell’anno c’era anche una certa Simone de Beauvoir che Montale liquidò senza mezzi termini, come “Dicono sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme?”.
Affermazione alquanto discutibile, che oggi fa un poco inorridire. Ma Montale si fece perdonare con il “discorso solenne” pronunciato in occasione della cerimonia del premio Nobel all’Accademia di Svezia, il 12 dicembre 1975, davanti a Re Carlo Gustavo.
Il giorno dell’assegnazione del Nobel, Montale era tormentato: lo davano favorito al 90%, motivo per cui trascorse una notte insonne. Neppure dopo la notizia della vittoria la sua ansia si placò, come se sentisse in fondo di non meritarlo quel premio. Come tutte le persone molto intelligenti, era pieno di dubbi e divorato dall’ansia. Temeva di fare un discorso banale. Curiosamente quel trionfo coincideva esattamente con i 50 anni dalla prima pubblicazione della sua opera capolavoro, la raccolta poetica Ossi di seppia (1925) pubblicata dall’editore ideale Piero Gobetti.
Il premio Nobel fu conferito a Eugenio Montale dall’Accademia di Svezia con la seguente motivazione:
Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni.
Il discorso, infine, gli riuscì e non fu per nulla banale, anzi. È tuttora considerato uno dei più memorabili della storia del Nobel.
Scopriamo cosa disse il poeta di Ossi di seppia all’assegnazione del premio Nobel e un’analisi delle sue parole che oggi appaiono come una profetica disanima della società contemporanea.
È ancora possibile la poesia: il video del discorso di Montale al premio Nobel
È ancora possibile la poesia: un’analisi del discorso di Montale
Alla cerimonia di consegna del premio Nobel per la Letteratura, tenutasi il 12 dicembre 1975 presso l’Accademia di Svezia, Eugenio Montale esordì con queste parole:
II premio Nobel è giunto al suo settantacinquesimo turno, se non sono male informato. E se molti sono gli scienziati e gli scrittori che hanno meritato questo prestigioso riconoscimento, assai minore è il numero dei superstiti che vivono e lavorano ancora. Alcuni di essi sono presenti qui e ad essi va il mio saluto e il mio augurio. Secondo opinioni assai diffuse, opera di aruspici non sempre attendibili, in questo anno o negli anni che possono dirsi imminenti il mondo intero (o almeno quella parte del mondo che può dirsi civilizzata) conoscerebbe una svolta storica di proporzioni colossali. Non si tratta ovviamente di una svolta escatologica, della fine dell’uomo stesso, ma dell’avvento di una nuova armonia sociale di cui esistono presentimenti solo nei vasti domini dell’Utopia. Alla scadenza dell’evento il premio Nobel sarà centenario e solo allora potrà farsi un completo bilancio di quanto la Fondazione Nobel e il connesso Premio abbiano contribuito al formarsi di un nuovo sistema di vita comunitaria, sia esso quello de Benessere o del Malessere universale, ma di tale portata da mettere fine, almeno per molti secoli, alla multisecolare diatriba sul significato della vita. Intendo riferirmi alla vita dell’uomo e non alla apparizione degli aminoacidi che risale a qualche miliardo d’anni, sostanze che hanno reso possibili l’apparizione dell’uomo e forse già ne contenevano il progetto. E in questo caso come è lungo il passo del deus absconditus!
Una presentazione umilissima. Nella prima parte del discorso Montale ricordò i tempi difficili dei suoi esordi, elencando anche i diversi lavori che dovette svolgere per mantenersi: traduttore, bibliotecario e persino disoccupato perché avverso a un regime che non poteva approvare. La prima edizione di Ossi di seppia, nel 1925, costava sei lire e fu stampata in una tiratura limitata di mille copie. Montale rivelò di aver dovuto persuadere amici e parenti a comprarla.
In seguito Montale difende i valori umanistici che la letteratura contribuisce a diffondere e che sono l’arma più potente contro l’oppressione dei regimi totalitari, lo spirito persecutorio e il fanatismo più crudele. In questo punto il poeta inserisce una riflessione tuttora attualissima sulla bomba atomica che considera il frutto più maturo dell’albero del male. Afferma che le opere letterarie possono essere micidiali, ma mai pericolose quanto quella terribile bomba atomica creata dall’uomo per auto-annientarsi.
Gli accademici di Stoccolma hanno detto più volte no all’intolleranza, al fanatismo crudele, e a quello spirito persecutorio che anima spesso i forti contro i deboli, gli oppressori contro gli oppressi. Ciò riguarda particolarmente la scelta delle opere letterarie, opere che talvolta possono essere micidiali, ma non mai come quella bomba atomica che è il frutto più maturo dell’eterno albero del male.
La cultura di massa e la bomba atomica secondo Montale
Montale non si professa sociologo, tuttavia nel suo discorso tocca importanti temi di matrice sociale e politica. Pone una lente sull’attuale società della cultura di massa e ne sviscera tutte le implicazioni, osservando che l’umanità ammaliata dalla radio e dalla televisione - e dai social network, diremmo oggi - sta perdendo la capacità di riflettere (e di tacere). Lo spettacolo, osserva Montale, può essere definita come l’arte nuova del nostro tempo.
Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo.
Con la sua intelligenza acuta Eugenio Montale non critica l’avvento della televisione, della radio, che all’epoca rappresentavano i principali e più innovativi strumenti di comunicazione. Il poeta non critica il mezzo, ma l’uso che se ne fa: e questa riflessione potrebbe essere riattualizzata ai giorni nostri e all’uso più o meno etico che la gente fa dei social network.
Ed è proprio in questo punto che Montale giunge a porre la domanda cardine del suo discorso: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?
La risposta che dà il creatore di Ossi di seppia è certa e univoca: non c’è morte per la poesia.
Può sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?
Montale opera una distinzione chiave, quella tra opera di consumo immediato e un altro genere di produzione, quella che pare sorgere quasi per miracolo. In questo contesto il poeta afferma che la grande lirica non potrà mai morire davvero, poiché resterà sempre “una delle vette più alte dell’anima umana”.
Come prova di quanto detto, Montale lesse una poesia dell’autore cinquecentesco Joachim du Bellay, Odelette des vanneurs de blé, per dimostrare che un’opera poetica può trovare anche a distanza di secoli il suo interprete.
Eugenio Montale osserva che nella società attuale della cultura di massa e dell’uomo robot la poesia è ancora possibile, perché è in fondo un’arte povera. È sufficiente un foglio di carta e una penna per scrivere una poesia, il gesto della scrittura è tecnicamente alla portata di tutti. Non è necessario essere pubblicati per essere poeti - osserva Montale - che di fatto lega la poesia all’espressione primigenia dell’anima umana.
Infine il poeta osserva che molta poesia oggi si esprime in prosa. Dunque lega la sorte futura della poesia a quella del romanzo.
Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa. L’arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi opere di poesia.
Nella conclusione Eugenio Montale osserva che il destino delle arti è intrinsecamente legato alla condizione umana, al nostro destino di essere umani. Che ne sarà dell’uomo di domani? si domanda Montale.
È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione.
Finché l’Uomo cercherà le risposte riguardo al suo essere nel mondo, finché continuerà ad interrogarsi sull’incertezza e la precarietà della sua condizione mortale, l’Arte rimarrà viva. La poesia, afferma Montale, esisterà sempre in quanto espressione primaria dell’uomo e ritratto di una precisa epoca della storia da trasmettere ai posteri. La poesia, intesa in questo senso, non sarà mai inutile. La produzione poetica destinata a svanire è quella che si sottomette alle logiche del profitto del mercato editoriale, quest’ultima è destinata a generare “un vuoto assoluto”, non è altro che arte-spettacolo ridotta al tempo effimero della sua rappresentazione.
Mentre la poesia che sgorga dal profondo dell’anima, come un urlo dello spirito o un’esigenza vitale di respiro, quella non è destinata a perire, potrà trovare il suo pubblico ideale persino in chi oggi ancora non è nato, nell’ipotetico Uomo del futuro.
Oggi potremmo dire a Eugenio Montale che i suoi versi fanno certamente parte di questa seconda categoria. La sua poesia vive ancora e non ha mai cessato di interrogarci, persino noi “uomini del futuro”, come chi scrive questo articolo che in quel lontano giorno di dicembre del 1975 non era ancora nata.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “È ancora possibile la poesia”: il discorso di Eugenio Montale alla cerimonia del premio Nobel
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